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SHANE [ASSENTE]

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2016 08:49
OFFLINE
Post: 209
Sesso: Femminile
16/01/2013 17:02

Maestro

Sangue: Maestro
Doni del Sangue predominanti: Fisici
Morto la notte del 9 di Ruis, 1130 D.C.
Figlio del Sangue di Ithilbor, Sposa Assassina, Luna Rossa dei Moth

Skill comuni: Combattimento Disarmato Liv. I; Esperienza armi da guerra leggere Liv. I

Skill Fisiche: Potenza (1), Resistenza (1), Agilità (2), Volontà (0)

Skill di razza: Dominio (2), Veggenza (2), Tenebra (2), Vigore (3), Celerità (3), Istinto (3)

***


Allineamento: Caotico Neutrale
Terra di origine:
Occhi : Azzurri
Capelli : Biondo cenere
Peso : 76 kg
Altezza : 183 cm

Descrizione Fisica: Capelli biondo cenere, alto 183 cm. Viso dai tratti forti, decisi, in cui spiccano penetranti occhi azzurri.

Provenienza: Isola di Björkö – Svezia


***


BACKGROUND


Crebbe in Svezia, nell’isola di Björkö.
Non seppe mai chi fossero i suoi genitori.
Fu strappato dalle braccia di sua madre morente avvolto in una coperta che recava il ricamo del blasone di famiglia, durante un’incursione contro un altro isolotto dell’arcipelago quando ancora era troppo piccolo per poter ricordare, e fu allevato in seno ad una armata di razziatori, capeggiata da un certo Fiordo.
Questi imponeva la più rigida disciplina militare, sotto un pugno di ferro e così pure a Shane, sin da quando era bambino, venne impartito un severo addestramento.
Non ricevette mai un dono in fanciullezza, se non quella coperta che una delle nutrici aveva conservato per lui e gli consegnò in segreto raccontandogli da dove venisse; non ebbe mai balocchi o amici immaginari; mai una pacca di incoraggiamento o una carezza, mai un’esortazione se non quelle a resistere alla prossima carica dell’avversario di turno, a non demordere e a non piegarsi mai, a non avere nessuna pietà.
Non aveva amici, ma solo compagni di sorte, con cui si sfidava quotidianamente nel combattimento a mani nude, cercando il modo di sbilanciarli sfruttando il loro maggior peso. Doveva vincere se non voleva essere punito.
Solo i forti sopravvivevano, gli veniva costantemente ripetuto, e la paura era un sentimento da confessare ai superiori, sì che quelli potessero porvi rimedio nella stanza dell’epurazione, a colpi di frusta e flagello.
Finì in quella stanza molte volte anche perché aveva un totale spregio dell’autorità, e veniva guardato sempre con un certo sospetto dai vari gerarchi e finanche dai suoi stessi compagni, che spesso gli furono delatori.
Perse molte volte contro ragazzi e ragazze più grandi, prima che il suo corpo si irrobustisse. Il petto è ancor pieno delle cicatrici delle sevizie e dei duelli, nei quali pian piano egli acquistava maggiore tecnica, coi muscoli che si sviluppavano nel modo necessario a quel tipo di scontro, duri e scattanti. Quegli allenamenti, associati alla prontezza di riflessi che a detta dei sovrintendenti all'addestramento era una sua innata qualità, lo portarono un giorno ad eccellere su tutti gli altri. Non godette di quel primato, se mai quello lo rese, se fosse possibile, ancora più solo.
Aveva un carattere schivo ed introverso e quando dal combattimento a mani nude passò a quello armato, difficilmente trovava avversari felici di misurarsi con lui; era aggressivo, spregiudicato e terribile nella furia, un animale impazzito difficilissimo da domare.
Quegli allenamenti tra compagni erano terribili, fratricide lotte all’ultimo sangue tra giovanissimi soldati di mestiere, in cui prevalere significava sopravvivere. Solo chi non moriva entro i sedici anni poteva entrare a buon diritto nell’armata. Erano i Figli dell’Apocalisse, diceva Fiordo, e un giorno avrebbero messo il mondo a ferro e fuoco al suo comando.
E così, il nostro si conquistò sul campo il diritto di combattere, e quando ciò accadde, divenuto improvvisamente loquace, confidò a tutti che si sentiva come se avesse raggiunto finalmente uno scopo per cui valesse la pena vivere; che l’Armata significava tutto per lui e che sarebbe morto sotto il suo vessillo solo dopo averlo piantato nel cuore dell’ultimo nemico vivente.
Da allora fu un esecutore feroce, sconsiderato ed intrepido, un combattente impavido sempre in prima linea.
Trascorsero in questo modo sette lunghi anni in cui la sua considerazione presso Fiordo salì alle stelle, tanto che questi lo accolse nella cerchia dei suoi fedelissimi, uomini e donne devoti e pronti ad assecondare le sue crescenti smanie di potere.
E venne il giorno che Shane aveva da poco compiuto ventitrè anni, e nel covo dell’Armata, un’ampia grotta dalle pareti di granito, la schiera era riunita dopo l’ultima scorreria. Il bottino era stato magro; l’alcol era passato di mano in mano e i guerrieri stavano intorno al fuoco a distendere i muscoli.
Molto discosto, assiso sopra un alto seggio coperto da una pelle di lupo grigio, il Capo, con la faccia ancora dipinta di nero, riposava, il braccio sinistro poggiato sulla zampa irsuta dell’animale, il destro piegato a reggere il peso del capo inclinato; gli occhi chiusi, all’apparenza inerte ed insensibile a quanto accadeva, respirava pesantemente.
E così, incoraggiato dall’evidente assopimento di Fiordo, il mormorio di coloro che sedevano o se ne stavano distesi, intenti chi a consumare pasti e bevande, chi a sonnecchiare o a ripulire e lucidare armi e corazze, aumentava.
Sbeffeggiamenti e provocazioni reciproche si sovrapponevano in un confuso vociare; di tanto in tanto risuonavano ad attirare per un momento l’attenzione generale brani di più ristrette conversazioni, suscitando acclamazioni di protesta o apprezzamento, a seconda del caso.
Due oratori si stavano alternando: roventi parole accendevano la platea, come un mantice che soffiava sopra l’alcolica euforia fuoriuscita dai fiaschi frantumati contro la parete scelta da chi, di volta in volta, aveva ricevuto in sorte l’ultimo sorso. Gli ascoltatori più infiammati si lanciavano in ruggiti potenti che alle loro stesse orecchie giungevano più bassi di quanto non fossero in realtà. Nodose nocche scandivano sul dorso degli scudi le argomentazioni più felici.
Forse proprio il rimbombo dei colpi sugli scudi, più ancora di quei comizi sguaiati, spezzò il sonno leggero del Capo che, proprio com’era venuto, d’improvviso cessò d’ottenebrarne la coscienza. Una parlata gutturale, dal tono aspro giunse all’orecchio di Fiordo: questi repentinamente serrò la sua mirabile mascella, una vena pulsante gli apparve sul collo poderoso, rigonfia di sangue.
“Gli elfi hanno cibo in abbondanza e nettari di bevande, squisite da bere. Questa carne è dura, ed il vino nel mio boccale non è buono nemmeno per condirla!” aveva appena proclamato il primo cui, dopo un grugnito d’assenso, l’altra aveva replicato: “Già. E questa grotta è fin troppo umida. Le mie armi si arrugginiscono e guarda come si sono ridotti questi schinieri! Le giunture poi... mi dolgono come avessi chiodi conficcati a fondo nella pelle. Anche il più misero contadino possiede una capanna asciutta!”.
Udito il tenore dei discorsi, gli occhi sbarrò il signore di quel luogo. L’ira in un lampo aveva già contorto i lineamenti duri, pure segnati da una spossatezza che richiedeva riposo. Con uno scatto fulmineo quello si levò, incedendo con fiera falcata e la sua camminata tagliò in due la grande sala.
Una brusca deviazione e fu nei pressi di un capiente catino di legno; rapidamente lo afferrò per una delle piatte estremità e lo scagliò tra le gambe di colui che aveva parlato per primo: a lui Fiordo mostrò il pugno gigantesco, squadrandolo dall’alto in basso e prendendo nota del suo aspetto trascurato, soffermandosi sulle mani, infangate ed ancora sporche di sangue, dalle unghie spezzate e tinte del nero della terra.
Scosso il capo con aria disgustata, lo investì con tonanti parole: “La prossima volta prova a scavare un fosso per un recipiente come quello, infilacelo e riempitolo d’acqua gettavi pietre roventi, ché possa bollire. Poi cuoci la carne fino a farla staccare dall’osso, cane senza cervello! E’ possibile che io debba essere circondato da un branco di stupide bestie come te? Siete tanto abituati a menare le mani che vi siete dimenticati dell’ultima volta in cui avete usato la testa, ammesso che ciò sia mai accaduto!”.
Poi si portò rapidissimo a poca distanza dal suo diretto interlocutore, e strappatogli il boccale ne ingollò d’un fiato il contenuto, prima di scagliarlo con noncuranza lontano e riprendere furente a parlare: “E non ti piace quello che bevi? Che ne diresti di un po’ di acqua e miele per allungarlo all’uso dei nobili? Mi fai pena, Cacciachierici: proprio tu ti stai rammollendo? Il vino avrebbero fatto pure a tempo ad avvelenarlo prima che arrivassimo! Con tutto il baccano che avete fatto ci avranno uditi non appena usciti da qui! E poi... invece di blaterare al vento, va’ a lamentarti col capo di quei mandriani ché la tua gola delicata non sopporta di buttare giù questa feccia… se i corvi non gli hanno già spolpato le orecchie, forse ci sente ancora”. Quindi sul viso gli comparve un feroce sogghigno, a snudarne la pericolosa dentatura: “E che in ogni caso ti serva di lezione: prima di spaccargli la testa, la prossima volta assaggia dal suo otre e scopri se ne vale la pena”.
Una risata sprezzante anticipò dunque il gesto di volgere il fianco sinistro a mò d’offesa a quello, che prese a staccare nervosamente grandi pezzi di carne, come fosse a digiuno da mesi.
Dopo essersi girato, Fiordo cercò poi con lo sguardo colei che per seconda aveva udito parlare, cui non servirono le spallucce, fatte per un’inusitata, insincera timidezza, per non subire l’avvelenata replica: “Le capanne bruciano. Come non ne avessi mai data alle fiamme una, tu che una volta te ne facevi un vanto, sorella! Mi fai vergognare di te…”, sibilò, poi aggiunse, gridando furioso: “Di voi, di tutti voi!” e l’indice destro disegnò un semicerchio nell’aria che partendo dall’esterno della propria figura si chiuse all’altezza del suo possente petto, ove gli artigli di un grosso orso avevano lasciato in una sera fredda di molti anni prima la loro inconfondibile, tragica impronta: “Belate come pecore”.
Raschiatasi la gola, quello sputò contro il terreno, poi lasciò vagare il suo sguardo intorno, finendo inevitabilmente per intercettare anche tutti gli altri che pure in precedenza avevano parlato, i quali, inconsapevoli di non essere invece stati ascoltati dal dormiente, giacevano intimoriti; uno ad uno, per paura che egli sbottasse di nuovo e che stavolta non si fermasse alle parole, abbassarono lo sguardo rinunciando ad incontrare quello del loro capo.
Tutti tranne uno.
Quest’ultimo gli si avvicinò frontalmente, sventolandogli sotto il naso una coperta ricamata che reggeva con la mano sinistra, e che copriva un’acuminata daga corta, che il soldato impugnava saldamente nella dritta.
Quando la lama, lesta, fu vibrata verso l’imbocco dello stomaco del capo, questi, incredulo, fu passato da parte a parte senza avere neppure il tempo di reagire.
Morì con gli occhi sbarrati e nel trambusto che seguì, Shane diede il via al suo incredibile piano di fuga.

-Maldon, Inghilterra. 24 Nion 1120 -

No. Andava tutto male, malissimo. Askalta era riversa a terra, nascosta nel folto della Foresta di Alesys, certa che entro pochi minuti l’avrebbero trovata. Avvolta in una coperta di lana verde, se ne stava accucciata nel mezzo di arbusti di mirto infoltiti da piante ricolme di more e lamponi. L’umidità era palpabile, ogni filo d’erba o foglia d’albero ne erano pregni e, di tanto in tanto, una fastidiosa goccia le cadeva sul capo, immergendosi nella massa serica di capelli biondi, arruffati e corti. L’aria usciva dalla sua bocca come una nebbiolina umida e quella ch’entrava nelle sue narici era gelida, ostile. Le torce si stavano avvicinando, quando vide, avvolta nel mantello nel blando tentativo di mimetizzarsi fra la vegetazione, un’ombra fra l’olmo e il pino a due metri di distanza, alla sua sinistra. Ma l’ombra, in pochi secondi, divenne una persona vera e propria, un bellissimo uomo dalla chioma dorata, un dono degli Dei? § Vieni con me, conosco un posto sicuro. Stanno arrivando! § sussurrò l’uomo, accostandosi e tendendole la mano, guardandosi nel mentre sospettosamente a destra e manca. Le piccole luci si avvicinavano e le voci si facevano più forti, fortunatamente aveva avvelenato i cani, ma i guardiacaccia sapevano trovare le orme dei suoi passi. Non conosceva quell’uomo, ma che altro poteva fare se non fidarsi? Tanto valeva provarci.

- Poche ore più tardi –

Non aveva mai amato la carne secca, tutt’altro. La odiava.
Eppure quel pasto era stato il migliore di tutta la sua vita, pensò Askalta, adagiandosi comodamente nell’angolo di quella piccola casupola usata, di certo, dai cacciatori della contea. Osservò, sorseggiando del sidro –troppo acido e alcoolico-, l’uomo che le dava le spalle. Alla luce delle poche candele era stata una rivelazione. Bellissimo. Non d’una bellezza tradizionale, il suo volto era piuttosto spigoloso e i colori dei suoi capelli e occhi troppo chiari su quella pelle baciata a malapena dalla luce del sole. “Chi sei?” si sentì domandare, senza esserne totalmente cosciente. “Non porto più alcun nome” rispose quello, voltandosi e guardandola per qualche attimo, con occhi accigliati, o forse semplicemente curiosi. “Ti pesava quello di prima?” rispose la giovane donna, scostando una ciocca della frangia lontano dalla fronte e dagli occhi verdi come la malachite. Era sempre stata capricciosa e ostinata, nessun precettore cristiano era riuscito a domare il suo animo impetuoso, neppure a tenerla distante dagli antichi Dei, quelli Veri. Non si sarebbe fermata, fin quando non ne avesse saputo di più sul conto del suo salvatore. “Smettila di fare domande” rimbrottò lui, “meno sai e meno temi. E’ così per tutte le cose, e in questa faccenda più che in tutte le altre. Ti ho aiutato perché ho visto quegli sgherri schifosi caricarsi di birra all’osteria del Lupo Rosso prima di cominciare la caccia. Parlavano di te come di un trofeo da vincere, prima di riportarti a tuo fratello. Ma se sei scappata da lui, ci dovrà essere un buon motivo, no? Accontentati di sapere che sono solidale con le persone braccate, e non domandarmi di più” concluse, accorgendosi subito di aver parlato troppo, e deciso a non rivelare più nulla alla giovane donna. Askalta, al nominar quella insulsa taverna, inorridì: era un luogo disonorante, tabù parlarne per le dame di buona famiglia, poiché vi lavoravano donnacce e ivi circolavano borseggiatori e mercenari senza scrupoli; mentre indugiava in quei pensieri vide il suo salvatore ingurgitare con studiata pazienza il suo boccone e fissare lo sguardo nel vuoto, dopo averlo a lungo mantenuto nei suoi occhi; si morse la lingua, con forza, fino a sentire in bocca il metallico sapore del sangue. Poi quello si alzò ed ella lo osservò avvicinarsi. Ancora e ancora. Iniziò ad aver paura di quella prossimità e si tirò indietro, appoggiando le spalle contro le assi di legno del muro. “Prendi” mormorò ei, atteggiando il viso ad un’espressione neutra, prima di lanciarle un sacchetto di cuoio marrone legato da un nastro, tintinnante di monete. “Tranquilla, principessa, non sei il mio tipo” aggiunse, arretrando di due passi, quasi a mostrar coi fatti la sua buonafede per poi accostarsi al giaciglio nell’angolo. “Sei un mercenario?” gli domandò allora la fanciulla, cercando di comprender dal volto di lui i suoi pensieri, le sue intenzioni, sentendosi all’improvviso a disagio nel trovarsi da sola con un totale sconosciuto. “Parliamo di te. Ti chiami Askalta, giusto? Sai, hanno offerto 1000 denari per la tua cattura, o almeno così ho sentito dire…” le mormorò, come se quella cifra, con la quale avresti potuto comprare una fattoria o forse una locanda, potesse in qualche maniera spingerla a rivelargli qualcosa di più sui motivi per i quali volessero farla prigioniera. Ne era curioso in fondo, seppur valutasse la questione con un certo distacco, come ogni altra cosa del mondo. “Questo dovrebbe rispondere alla tua domanda. Non sono un mercenario, né un tagliagole o un cacciatore di taglie. Altrimenti, starei già riscuotendo la tua e saresti chiusa nelle viscide prigioni del Castello, o peggio. Io..ero..un soldato. Di un’armata ormai senza condottiero... Anch’ io sono in fuga, e chi mi caccia è un nemico assai più pericoloso di tuo fratello. Anche per questo, dopo stanotte le nostre strade si divideranno” Aggiunse deciso, ed ella capì, dalla sua espressione, che non avrebbe ammesso discussioni sul punto. Ella non gli rispose, ma distolse lo sguardo, stringendo le gambe con la mano sinistra dato che nella destra aveva ancora il calice di sidro inacidito. “Nasconditi addosso quel denaro.” Le intimò lui, facendola sussultare nell’istante in cui calava il capo sulle ginocchia per riposare. Askalta sollevò la testa, avvolta dall’ispida aureola dorata e prese dal sacchetto una delle gallette contenute in esso. Ouch. Dure come il marmo, insipide, ma condite almeno del sapore della momentanea libertà... “Poi prendi tu il giaciglio e riposa. Al tuo risveglio non mi troverai”.
-Maldon, Inghilterra. 27 Gort 1120 –

La luce dei sotterranei del castello di Walstery era inesistente. Capiva s’era o giorno o meno dalla quantità di fango che insudiciava gli stivali dei soldati, poiché di notte era tanto umida lì da rendere fangoso il terreno esterno e s’appiccicava ai calzari con un nonnulla. Tranne quando pioveva, certo.. Quelli eran poi i giorni peggiori. I polsi le dolevano. Il ferro di quelle catene le graffiava la tenera carne che avviluppava, tanto ch’ormai eran prossimi a grondare sangue. Ancor di più le doleva la schiena: pesta, gonfia e gremita di croste scure, alcune delle quali purulente. Ma tutto questo era niente, in confronto al resto.
Mesi prima era scappata dal Castello, perché il suo fratellastro voleva darla in sposa a Wulfgard, un uomo noto per la sua brutalità. Una bestia che aveva già seppellito la sua terza moglie, all’età di trentacinque anni. In seguito quel tale l’aveva salvata e condotta in una baita nei pressi del Monte Kaeth - così lo chiama la gente del luogo - dove si erano fermati una notte.
Poi non lo aveva più visto, ed era stata costretta a riparare da sola, sulla costa più a sud della Contea, in un casolare nascosto fra le rocce e le scogliere.
Finché una notte un drappello di soldati non aveva fatto irruzione nella casa. Ella aveva provato a ribellarsi, ma non c’era stato nulla da fare. Fu riportata al Castello, legata braccia e gambe. Il fratello quando la vide provò uno dei suoi rari moti di gioia; rise sguaiato e ordinò soddisfatto di condurla nei sotterranei.
Disse che Wulfgard non la voleva più.
Che non c’era spazio per gli agnelli a questo mondo. Che i lupi vincono sempre.

- Leicester, Inghilterra. 6 Tinne 1123-

Due uomini erano seduti su delle sedie, dinnanzi al tavolino posto più al riparo dalle genti presenti nella Locanda e dal caos che producono in quell’ora tarda. L’odore delle bevande alcooliche annacquate permeava l’aria, così come quella sbobba che chiamavano zuppa di cavolo e il puzzo degli avventori. I due tenevano entrambi nella mano destra un boccale di birra bionda, riempita pochi attimi prima da una prosperosa donna dal volto saturo di cera e altre resine per donar colore alle gote e volume alle labbra.
“Perché lo sceriffo ha fatto ammazzare Rothgard?” domandò l’uomo grassottello, rivolgendosi al suo interlocutore e guardandolo con occhio vacuo.
“I debiti di gioco si pagano”, rispose l’altro semplicemente, scrollando le spalle: era un uomo segaligno, col viso dai tratti spigolosi. “E, a proposito di debiti, ne abbiamo uno importante con l’oste..Che ne dici di chiedere in prestito qualche quattrino a quel tipo?” disse, indicando con l’indice della mano sinistra l’uomo che stava salendo al piano di sopra.
“Ottima idea” esclamò quello che aveva parlato per primo, prorompendo in una risata e richiamando l’attenzione della donnina con la brocca di birra, che s’avvicinò subito a riempir di nuovo i loro boccali.
E così, finito di bere, i due salirono le scale in cerca della stanza dello sfortunato avventore.
Il mattino dopo lo stalliere li trovò nel fienile, appesi a testa in giù con la gola tagliata, la giugulare recisa di netto con due tagli precisi, praticati in modo quasi chirurgico.

- Devon, Inghilterra. 19 Ruis 1128-

La notte era buia, tetra. Il vicolo della cittadina era scarsamente illuminato da un mezz’occhio lunare che si librava in cielo, riflettendosi nel pantano di piscio e sterco al centro di quella stradina dei bassifondi cittadini. La figura dell’uomo, dal fascino naturale e selvaggio, comparve all’angolo insieme a un ragazzetto che ad occhio non doveva aver più di tredici anni.
“Allora, Bjorn… che ne pensi di Sumar? E’ bella, vero? Ha degli occhi così azzurri che il suo nome, ‘estate’, le sta benissimo. Non trovi? Mia madre ha delle riserve perché sembra di stirpe vichinga. Sai, di questi tempi..”
“Lascia perdere tua madre. Ti piace? Questo basta, dannazione!”.
“Non so come convincerla. Oh, menomale che ci sei tu a parlar con me, amico mio, non posso mai esprimermi, mia madre mi urla addosso se la nomino, o se le dico che voglio sposarmi..”
“Domani andrò via e non mi vedrai mai più” gli rispose l’altro all’improvviso, in modo ancor più laconico.
“Ma come…? E io come farò senza di te a guadagnarmi da vivere?” replicò il primo di fronte a quell’inattesa notizia, con evidente preoccupazione già dipinta sul giovane viso corrucciato.
“Sei un bravo scassinatore di serrature. Potresti metterti a costruire dei salva denari, pensaci su. Magari così conserverai pure tutte le dita… Ad ogni modo, dai, finiamo quest’ultimo lavoro, ne parleremo domattina”…
***
“Ehi, che diavolo succede? Chi siete? Cosa vol..” urlò il conducente della carrozza prima di essere scaraventato giù dal veicolo, quando il suo posto venne preso da un uomo dai capelli biondo cenere, tagliati corti, che deviò il mezzo per una stradina laterale verso un luogo isolato, ove infine quello si fermò.
“O i gioielli o la Vita!” Mormorò il ragazzino mascherato che aspettava nel luogo convenuto, avvicinandosi alla carrozza e scostandone le tendine con la mano sinistra, brandendo nell’altra un coltello lungo quasi la metà del suo braccio.
Le due donne, madre e figlia, urlarono all’unisono, terrorizzate, e si lasciarono sfilare le gemme. Poi la prima parlò, con voce rotta da singulti colmi del più puro disprezzo, quasi sillabando “Mio marito è il conte, vi farà strappare le budella”.
Ma i due sciolsero i cavalli dalla guida del cocchio: il più piccolo mentre saliva in groppa al suo rideva della minaccia della donna; il più grande non le diede la benché minima importanza. Perché quella notte stessa sarebbe partito per il Nord, verso una cittadina di nome Barrington, di cui aveva sentito parlare da un contrabbandiere, in una malfamata bettola di confine.
Da qualche giorno sentiva un fiato pestilenziale sul collo ed aveva imparato a non dubitare mai del suo istinto. I segugi erano sulle sue tracce. Doveva sparire, e doveva farlo subito.

[Modificato da Nianna 16/03/2016 09:49]



I knew all the rules but the rules did not know me
guaranteed..





Grazie Serafin *_*
OFFLINE
Post: 26
Sesso: Femminile
16/03/2016 09:47


KARMA ATTUALE: 21044 (29/03/2016)

[Modificato da Nianna 29/03/2016 08:49]

Nianna
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