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Nome: Hivtur
Soprannome: Il corvo
Allineamento: Legale malvagio
Luogo di nascita: Britannia settentrionale
Età: 15 anni
Descrizione fisica: I suoi occhi. Sono il primo particolare che richiama l'attenzione. Grandi, di un grigio ferrigno e lucido, con ciglia sottili. Ha labbra tumide, ampie, che staccano di netto sulla pelle diafana del viso, sotto cui risalta un intrico di capillari. Se osservata con noncuranza sembra poco attraente, anzi: quasi sproporzionata. A contornarle il viso una massa folta di capelli scuri e soffici che toccano metà schiena. Sugli zigomi, le braccia e la schiena la cute è costellata da un mare di efelidi e nei. Alta (1,65 m), per essere così giovane, ma sta crescendo, potrebbe perciò guadagnare ancora alcuni centimetri.
Segni particolari: Ha tatuate sul dorso delle mani due zampe di corvo stilizzate (
immagine ).
Oggetti: All'orecchio sinistro ha tre orecchini d'osso. Porta con se il bastone appartenuto al vala Gyrd e un candelabro in ferro con fregi in oro.
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I corvi, nelle regioni boscose a nord della Britannia, sono un segno positivo. Assicurano qualche ora di calma prima dell'ennesimo temporale e indicano che i campi sono in salute. Quando la bambina nacque ne volarono a decine. Oltre le cime degli alberi il cielo fu oscurato dallo stormo, la foresta tacque. Chi avrebbe immaginato che la donna del vala - il veggente - avrebbe avuto un figlio? Una bambina. Pochi ci speravano, molti pregavano perché non accadesse. La giovane madre era cagionevole, e il parto la stroncò: morì, lasciando la piccola all'uomo più sorprendente della regione. Si imbrattava le palpebre con pigmenti neri e si diceva che fosse stato un guerriero degno del Valhalla. Leggende, chissà. Parlava alla terra. La foresta gli sussurrava segreti.
Il vala Gyrd non aveva la stoffa del padre, ma volle bene ad Hivtur come poté: le diede il nome che la madre avrebbe voluto e cercò di propiziare gli dèi affinché crescesse robusta e capace. E innanzitutto perché stesse lontano dai cristiani. Proprio non li soffriva. Quel villaggio anglosassone era un dei pochi indenni dall'egemonia dei Normanni che, anni prima, avevano invaso la Britannia. Le antiche tradizioni resistevano a dispetto delle regolari incursioni di monaci e viandanti che blateravano idiozie. Si venerava Uuoden - Odino, come lo chiamano i sassoni -, per lui si officiavano sacrifici. Ma spesso si ciarlava più con le proprie paure che con i Potenti.
La verità?
Gli dèi parlano agli uomini meno spesso
di quanto gli ultimi vogliano ammettere.
Da anni il vala non si sentiva tanto vivo, fiducioso, e riuscì ad allevare discretamente la sua unica figlia. L'unica legittima. Come se da sempre avesse avuto bisogno di lei per diventare se stesso. Persino lui, vincolato dagli dèi e dalle angosce degli uomini fu in grado di prendersi cura della bambina che il fato aveva voluto per lui, signore della foresta. Certo, nel villaggio ai margini della vegetazione nessuno avrebbe scommesso sulla buona riuscita dei suoi propositi, ma la piccola aveva una forza d'animo senza pari, persino tra i giovani della sua stessa età. In quell'anomala quotidianità c'era spazio per faccende domestiche e momenti di svago; di frequente persone dei villaggi vicini si inoltravano fino alla capanna per interrogare gli dèi tramite Gyrd. A volte uomini. In molti più casi donne, e non certo per conoscere la sorte. Era il solo momento precluso ad Hivtur. Non doveva ascoltare. Non doveva parlare. Non doveva entrare nella stanza. Nel silenzio, tutto faceva rumore, quand'era sola. Voci anonime spaziavano tra quella nota del vala, costringendola ad ignorare domande, sentenze e silenzi per concentrarsi su altro o tacere il sospetto che dubbi simili avrebbero tormentato anche lei. Per allontanare le anime, l'uomo suonava un tamburo. Dopo mesi e tentativi imparò ad estraniarsi dall'eco di quell'universo proibito, poco a poco migliorò. Se prima si affidava a rudimentali astuzie per isolarsi, crescendo imparò a controllarsi senza mediare. Alla propria morte, le ripeteva allo sfinimento suo padre, le avrebbe ceduto quel compito. Quel dono. Quella tortura. E sghignazzava come un ossesso, nel ricordarglielo.
Un'anticipazione: quel giorno non arrivò mai.
Non nel modo che avrebbero immaginato, almeno.
Ma ci furono lo stesso momenti sereni.
Doveva ricorrere ad altrettanta caparbietà quando, durante la stagione fredda, il vala spaccava legna per il fuoco. E nel farlo si sgolava nel modo più sguaiato possibile, dando sfogo a chissà quale inarrestabile entusiasmo. Se non riceveva visite faticava fino a notte: Hivtur si spiegava a fatica come quell'uomo alto ed asciutto, persino sciupato, potesse essere così energico.
Pur negandolo, non avrebbero potuto l'uno fare a meno dell'altra.
Si volevano bene, contro ogni umana aspettativa. Persino contro la loro.
Qualche giorno dopo lo trovò nella capanna: "Cosa fai?" sorrise solo come con lui riusciva.
Sotto la barba, le labbra dell'uomo si curvarono spontanee, le fece segno di tacere. Lei si sporse oltre la sua spalla ossuta, ed i suoi occhi si spalancarono dalla sorpresa: sulle braci era sistemato un contenitore in rame, pieno di un miscuglio nerastro. L'odore gradevole copriva il puzzo di sangue dell'ultima gallina sgozzata per un rituale. Appena il composto iniziò a bollire le spiegò tutto: avrebbe disegnato sul petto di un uomo un segno indelebile, una protezione eterna, e ne aveva in serbo uno per lei. Lei acconsentì, cercando di reprimere la paura, lecita nei bambini, per le cose sconosciute. Le disse che la tintura si chiamava china, un inchiostro permanente. Al tramonto brindarono con della birra seduti cavalcioni su un tronco caduto, come degli dèi. Sentiva la propria pelle in attesa. Lei aveva nove anni e suo padre, ispirato dai contorni di un sogno, le tatuò sul dorso delle mani delle zampe: quelle di Huginn e Muninn, i corvi di Uuoden. Un disegno che ricordava i rami di Yggdrasil o la runa Algiz, auspicio di protezione. Solo il vala ne conosceva il senso, e sogghignava, in apparenza senza un perché. A sua figlia disse che era un dono.
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Le malignità degli uomini consuma, se tollerata più del necessario, ribadiva il vala, deciso a risparmiare Hivtur dalla sua stessa condizione. Delle volte lo additavano come un esaltato, altre diffidavano delle sue verità. Ne era perseguitato, disse. Grandi nuvole orlate di nero oziavano inerti davanti ad un sole pallido, quel pomeriggio. Fino a quel momento le cose erano state fin troppo semplici, era necessario un cambio di rotta, ed il vento era favorevole.
Nel centro dello spiazzo antistante al capanno, la bambina sedeva sui talloni, in ginocchio. In attesa. La luce lattescente dei primi giorni freddi era insopportabile. Il vala era stato esplicito; qualsiasi cosa sarebbe successa, avrebbe dovuto contare i corvi nel cielo fin quando ne avrebbe avuta la forza: oltre le cuspidi degli alberi ne volavano parecchi, a intervalli irregolari. Corvi. Quant'erano splendidi. Sorrise, le parve di udire il suono di ogni grinza di pelle a fior di labbra, tuttavia si concentrò. Il sole era sorto da poco: aveva l'intera giornata per dimostrare di cosa fosse capace. Era pronta. Dalla mattina agli ultimi avanzi di chiaro suo padre la infastidì con chiacchiere di ogni genere, frottole insensate in cui era maestro, per saggiare la sua volontà o distrarla. Con la consapevolezza di chi sapeva il fatto suo le lanciò piccoli sassi o radici molli proprio mentre gli stormi sorvolavano la foresta. Tra le mille altre stramberie, le sussurrò anche un paio di consigli, certo che fosse scrupolosa a sufficienza da carpirli senza lasciarsi troppo disturbare. Per interminabili minuti camminò avanti e indietro biascicando insensatezze. Ridacchiava, strillava.
"Dai, ribellati, ribellati, bestia!" gli mancava sempre un po' di dolcezza paterna.
La ragazzina rimase immobile a fissare la volta biancastro, le nubi sembravano grandi mostri lucenti.
"Nei tuoi occhi avvamperanno fiamme, se insisti ancora" chi voleva prendere in giro, poi?
Quarantaquattro. Quarantacinque. Quarantasei colpi. E una caparbietà da far rabbrividire. I sussurri del vala avevano un fondo di verità, lo scoprì ben presto. Ci sarebbe ancora voluto tempo, peraltro sul viso della bambina si stava già facendo largo l'ombra di una tenacia solida, durevole.
"Spicciati o diventerai muschio" era un vero sollievo scoprirla inamovibile come una pietra.
Aveva le labbra contratte, le nocche indurite di terra, gli occhi avevano oramai preso il colore del cielo.
Con respiri profondi e lenti scandiva i minuti: scaricava la tensione e poteva catalizzare la propria attenzione dove osano in pochi. Ad ogni corvo che sorvolò la zona batté un pugno sul terreno - quello il suo modo di numerare -, rapido, leggero, per non sottrarre forza al resto. Poco a poco si estraniò dai tentativi per farla capitolare. La posizione scelta era congeniale all'obiettivo ma, visto il protrarsi del confronto, cercò di cambiare seduta il meno possibile per evitare di perdere anche un solo stormire di ali lassù.
Il vala voleva che la sua fermezza vacillasse. O che si dimostrasse la degna erede del futuro che gli dèi avevano voluto per lei. Sangue del proprio sangue. Hivtur ci riuscì: per ore batté la terra; rimase raccolta persino quando l'uomo incespicò nel bastone che scuoteva per pungolarla e stramazzò al suolo. Quello fu la premessa di molti sforzi, ma da lì poté solo che migliorare.
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Di frequente il vala, occhi e bocca di Uuoden, mandava la figlia fino alla zona abitata per raccogliere le vivande che i più offrivano loro per assicurarsi la clemenza divina. Hivtur e l'uomo che l'allevava erano considerati più potenti persino del capovillaggio, Thord Unn, che aveva di che indispettirsi per lo sgradito scambio di autorità. Sedotti dalle lusinghe del potere è difficile ricusarle: Gyrd doveva essere ucciso. Al più presto.
"Cosa faccio della figlia?" domandò l'uomo.
Il capovillaggio frenò un moto di stizza. Aspettò di avere di nuovo il controllo sui muscoli contratti del volto prima di replicare: "Fa quel che vuoi, ma che sopravviva. Rischiamo di guadagnarci odio con una morte. Due sarebbero la nostra rovina". Hivtur era giovane per ereditare il potere del padre secondo le leggi che, contro le nuove disposte dai Normanni, regolavano la vita a nord. Malgrado ciò, le autorità e gli anziani, troppo a loro agio nella carne, temevano. La ragazzina conosceva il senso dell'onore ma non il rispetto per la gerarchia. Lei e il vala erano dei pari, tranne quando una parete e il ritmo del tamburo li dividevano: alla prima spettavano quasi i medesimi compiti del secondo. Capitò che il Corvo negasse esplicitamente il potere di Thord: quello fu l'inizio di una promettente corsa sul filo del rasoio. Decisero con freddezza, o quasi. C'erano in gioco vite umane e i campi pativano il gelo: era d'obbligo attendere il momento opportuno, appena la terra si sarebbe ripresa dell'inverno, o l'assassinio di un vala avrebbe acceso più sospetti di quanti rischiava di stimolarne in tempi favorevoli. Nessun corvo si librò nell'aria, in quei mesi. Passarono altri due anni.
La notte designata era di luna nuova, e la foresta respirava sommessa. Stelle d'argento ardevano nel cielo nero. Il vala sarebbe morto di lì a poco. Poco è un'esagerazione: pur intontito dalle erbe, l'uomo provò a difendersi con tutte le proprie forze, aiutato da Hivtur, svegliata dal fermento. La lotta terminò alla pari. Vittima e carnefice rantolavano in fin di vita nel loro sangue mischiato e la ragazzina, dopo aver assistito impotente agli ultimi colpi, nemmeno riusciva a distogliere lo sguardo. Vegliò sui loro ultimi respiri tutta la notte e promise a suo padre che avrebbe compiuto un sacrificio per assicurargli gloria nell'altro regno. Restò impassibile agli scongiuri dell'altro morente per ore, mentre si dedicava al veggente, controllando di tanto in tanto il suo volto straziato per esser certa che respirasse ancora, e che l'altro potesse soffrire anche se ormai inoffensivo, disarmato. Egli aveva un tatuaggio sul petto e, per un istante, nella mente della ragazzina balenò un'ipotesi: il Gyrd sapeva?
Lo seviziò fino alla mattina seguente infilando la sommità di un ramo secco nei tagli che gli rigavano il torace, in cerca di un nome. Quello del responsabile. La morte lo colse prima che potesse confessare; allora si rese conto di quanto fosse difficile sorridere davanti alla bellezza della distruzione. Dove i più avrebbero rinunciato, il Corvo proseguì, inflessibile. Poi non ebbe occhi che per suo padre. Assorta, lavò il corpo del vala ormai morto, si colorò le palpebre con il suo sangue e lo consegnò alla terra.
Nella luce dell'alba uno stormo di corvi si levò in volo.
Era immobile, in piedi e con lo sguardo incastonato nell'orizzonte gonfio di nubi, quando un gruppo di monaci di ritorno al monastero di Trossachs la vide ferma in mezzo al sentiero. In scacco ai propositi di Gyrd. Reggeva il bastone appartenuto a lui, attonita: i suoi occhi scivolarono privi di emozione sugli sconosciuti, aveva le guance rigate da lacrime sporche. Da qualche parte, in bocca, le era rimasta imprigionata una nota tagliente. Mani fredde si legarono a mani calde, e la percezione del battito del polso di un altro essere umano si propagò attraverso la pelle intirizzita. Stordita, si lasciò condurre senza opporre resistenza, ma li seguì solo in cambio di un candelabro in ferro decorato in oro - sembrava di valore, sarebbe potuto tornare utile -. Un'integerrima accortezza di uno di loro, in attesa di un piccolo, futile miracolo che sfumò quasi subito: la sconosciuta giunse, un giorno, a minacciare di colpirlo con lo stesso pegno della loro tacita collaborazione perché si era avvicinato troppo, senza secondi fini e in tutta ingenuità: voleva pulirle il viso, eppure lei lo tenne a distanza; proseguì certa di aver fatto la cosa giusta ed uno strato di polvere come seconda pelle. La destinazione - almeno per lei - era sconosciuta. Durante il viaggio la osservarono poco, con la coda dell'occhio e un vago ritegno. Scrutavano inquieti i segni - demoniaci? - sul dorso delle mani, incapaci di vedere oltre e combattuti tra angoscia e pietà. Non notarono l'ovvio.
Era una ragazzina, umana come tutti.
A loro sembrava un corvo, la chiamarono così.
Aveva visto assassinare suo padre.
Stava morendo di fame.
Se per anni aveva sopportato gli starnazzi del vala e il rimbombo di sussurri vietati, le litanie dei monaci e i loro maldestri tentativi di intavolare un dialogo la misero a dura prova. Non diede loro corda, la sua espressione rimase immobile come fosse scolpita nella roccia. Una volta raggiunto il monastero, giorni dopo, le offrirono della minestra e un tozzo di pane. Qualcuno sorrise. Nessuno le domandò come stava tranne il responsabile dello sparuto gruppo di uomini di dio, la mattina in cui fu consegnata ad una comitiva di mercanti diretti verso sud, a Gloucester, per alcune faccende. Per la seconda volta acconsentì senza fiatare. Dentro di sé, si disse tutto. Era stremata. O, chissà, aveva in mente qualcosa.
Pensarono di venderla agli irlandesi che bazzicavano per la città portuale, sempre in cerca di schiave o giovani mogli. Ci si poteva guadagnare bene, anche se la ragazza non aveva nessuno degli attributi che normalmente si giudicano attraenti; anzi, conclusero, era quasi brutta. L'arrivo era previsto in un paio di mesi, soste incluse. E furono lunghe soste. Di giorno raggiungevano i mercati, di notte i commercianti si godevano le loro nubili e disponibili adoratrici di uomini. Hivtur cercava di trascurare le loro voci, di non dar retta al sottofondo di quel groviglio di respiri. Aveva un sacrificio a cui pensare. Un padre cui far giustizia. Una scena da ricordare.
Riesce a scorgere un essere umano, stravolto, nel fitto.
I tagli provocati dal freddo sono evidenti, ha del sangue congelato sulle dita.
Immobile, davanti a due cadaveri, affonda le ginocchia nel fango.
Ancora incredula, inizia a scavare una fossa.
Quella è lei.
I primi mesi furono i più duri.
Ogni notte aveva un incubo, sempre uguale.
Vedeva il volto straziato di suo padre, i suoi occhi volti all'altro mondo.
Si svegliava in silenzio, passando da buio alla penombra e rannicchiandosi contro la parete: tormento migliore del pavimento, questo è sicuro. Le sue palpebre si aprirono a fatica, livide, non fece nulla di ciò che di solito si collega allo sgomento: quelle sono cose che capitano quando ci si sveglia da un brutto sogno, non quando ci si sveglia in un brutto sogno. Impiegava minuti per cancellare dalla testa quello sguardo, però ci riusciva. Doveva fare appello a tutta la propria tempra.
"Unisciti a noi, ragazzina" la voce accalorata di uno dei mercanti graffiò il silenzio.
Hivtur squadrò i profili di un paio di corpi nell'aria pesante della stanza. Quante volte glielo avevano già domandato? Soffocò una smorfia nel ricordarlo: fu l'unica risposta che diede loro, sicura nell'animo pur se sentiva il proprio spirito a brandelli. Non dette a vedere desiderio né interesse, rimase in un angolo a guardare dall'altra parte, a contare ali immaginarie oltre il vetro della finestra. Più l'altro si impuntava più lei sorvolava le sue richieste, aggrappandosi a sé stessa. Ai corvi. Risoluta. In silenzio, cercò di ridurre l'interesse per quel groviglio di carni e pellicce come aveva appreso a costo di sfibrati giornate con lo sguardo verso l'alto. Respirava con calma, pressoché inerte, talmente era assorbita dai propri disegni, che l'insistenza altrui finì per diventare un'eco sbiadita.
Senz'altro i corpi cedettero che lei dormisse.
I mercanti abbandonarono i loro intenti quando, a poche miglia dalla meta, svegliandosi per l'ultimo giorno di marcia, scoprirono che era fuggita. Durante gli ultimi rimasugli di buio avevano dormito tanto profondamente da non avvertire nulla, dato che la ragazzina era agile nella media ma l'idromele aveva fatto il proprio dovere. Poco male, si convinsero: valeva poco.
Superò Gloucester, diretta ad Avalon, dove sapeva esserci un tempio, poco importava votato a chi.
Il vala Hivtur, figlia del vala Gyrd, aveva promesso un sacrificio.
Dove assicurare a suo padre l'ingresso al Valhalla.
In fin dei conti, se lo meritava.
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L'allineamento
legale malvagio rende un'idea dell'indole di Hivtur più degli altri. Dunque ho ampliato il background con nuovi riferimenti:
- Non rispetta l'autorità di Thord
- Resta impassibile quando il vala cade accidentalmente
- Sevizia a morte l'assassino per conoscere il nome del mandante
- Segue i monaci in cambio di un candelabro in ferro con fregi in oro
- Giorni dopo, minaccia il cristiano che - innocente - si avvicina per pulirle il viso
Ho aggiunto due episodi in cui è evidente
volontà lvl 1:
Il possessore di questa skill possiede un animo ed uno spirito temprati, che gli consentono di mantenere alta la propria concentrazione ed integra la propria sanità mentale anche in casi in cui normalmente eventi circostanti potrebbero interferire con la meditazione o la concentrazione.
Livello 1: la volontà del possessore della skill è in grado di resistere a piccoli interventi dall’esterno (rumori normali, una persona che gli dà a parlare, un cavallo che passa al galoppo). Inoltre offre una certa resistenza agli effetti di charme / paura (10 %)
Motivazione: Nel primo Hivtur resiste agli insistenti tentativi del vala di farle perdere le staffe e la concentrazione, nel secondo desiste dall'insolenza del mercante che - anche in seguito - la invita ad avvicinarsi. In alcuni paragrafi ci sono diversi rimandi alla tenacia del Corvo nel sopportare rumori, richieste, paura. Ad esempio quando il vala canta a squarciagola mentre la bambina deve concentrarsi su altre faccende oppure quando si occupa del padre moribondo prima senza lasciarsi piegare dalla disgrazia di quella notte, poi evitando di considerare le suppliche dell'assassino. Infine cerca di ignorare le litanie che i cristiani intonano durante il viaggio per meditare la mossa successiva.
A te la parola, e grazie (:
Il Corvo
Per favore, fidati di me. Posso davvero essere allegra.
Posso essere amabile. Affettuosa. Affabile.
E queste sono solo le parole che iniziano per A.
Non chiedermi però di essere bella: essere bella non è da me.
Ti preoccupa? Il mio consiglio è: non avere paura. Sono leale.