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ITHILBOR

Ultimo Aggiornamento: 30/05/2016 08:39
27/01/2011 13:55

da Novizio ad Antico

Ithilbor Wright

Sangue: Novizio

Doni del Sangue predominanti: Mentali

Morta la notte del sesto giorno di Luis, 1129 D.C.

Rinata con il nome di Sposa Assassina, Luna Rossa dei Moth

Figlia del Sangue di Sleiv Corvo Sfregiato dei Moth.

Skill Comuni: Sotterfugio (3), Esperienza Armi Da Guerra Leggere (2) Esperienza Armi da Tiro (1) Esperienza Armature (1)

Skill Fisiche: Potenza (1), Resistenza (1), Agilità (2), Volontà (3)

Skill di Razza:
- Novizio: Dominio (2), Veggenza (2), Tenebra (2), Vigore (1), Celerità (1), Istinto (1)
- Maestro: Dominio (3), Veggenza (3), Tenebra (3), Vigore (2), Celerità (2), Istinto (2)
- Antico: Dominio (4), Veggenza (4), Tenebra (4), Vigore (4), Celerità (4), Istinto (4)

Mutaforma di Istinto liv.III:
Forma di combattimento: Lupo Bianco. IMMAGINE
Forma di fuga: Corvo Bianco. IMMAGINE

Allineamento: Caotico/Malvagio


NOTA: Il pg è mancino

***


Capelli: neri
Occhi: azzurro/grigi
Altezza: 1.75
Peso: Kg.55
Descrizione Fisica: Mai potrei descrivere la maestà, la tranquilla calma del mio portamento o l'inafferrabile leggerezza ed elasticità del mio passo. Giungo e mi dileguo come un’ombra. Mai ti accorgeresti del mio arrivo se non per la cara musica della mia sommessa dolce voce, mentre ti poso sulla spalla la mia mano marmorea. [E.A.Poe ''Ligeia'']*§*No mortal can look in those eyes without having his resolve shattered With one touch of those cold soft lips she will steal your soul forever And you will beg her for more. Nessun mortale può guardare quegli occhi senza che la sua determinazione si frantumi Con un solo tocco di quelle labbra morbide e fredde lei ti ruberà l’anima per sempre E la implorerai di farlo ancora*§*


***


BACKGROUND


~ O che cosa paurosa, che cosa terribile è questo imprevisto, questo imprevisto che ci sta alle spalle, che cammina innanzi a noi; questo imprevisto che ci viene incontro, e noi tutto ignoriamo, e noi nulla possiamo prevedere, e tutto quello che abbiamo previsto, anche atroce, non ac¬cade. E solo l’imprevisto vive, solo esso esiste. Solo esso ci attende, ci vuole, ci prende, ci travolge, via, via, nel vortice dell’inconoscibile ~



oO° La Luna del Lupo °Oo


È dedicata alla famiglia, e al gruppo. Ci invita a coltivare gli affetti e ricorda l’importanza del lavoro di gruppo.

La mia storia ha seguito un corso ben preciso. Tutto scandito da una sorta di orologio immaginario che, tocco dopo tocco, ha tracciato le linee di confine tra una Luna e l’altra. La Luna già…quella stessa Luna che di volta in volta si rende quasi complice silente della trama che il Fato va tessendo per me.
Sono nata il primo giorno di Duir nel Maniero di Embasts nel Bruges, chiamato anche dai romani Pafus Flandrensis (// in Belgio) 15 lune fa ma non conservo nulla di quel periodo.
Il mio primo ricordo nitido rincorre ed evoca un urlo…sì, un urlo. Un pianto di¬sperato che mi ha salvato la vita. Che ha salvato l’esistenza mia e di colei che la vita mi ha donato. È una storia che mi è stata narrata. Una e più volte. Era una notte con la Luna piena quella in cui una vecchia ha trovato me distesa su candida e fredda neve, avvolta solo da poche stole. Accanto al corpo ferito di mia madre. La vestale aveva avuto una visione. La Madre le aveva mostrato quell’immagine di una donna morente sulla neve, con una bimba ancora in fasce. E il mio pianto e la mia disperazione le fecero trovare la via. E fecero percor¬rere a noi il cammino verso la Montagna Urzas, in Cornovaglia, al Tempio dove Albeth, la vestale, abitava. Il Tempio era ben nascosto, accolto da una cavità all’interno della Montagna Urzas, raggiungibile solo dopo aver percorso una lunga galleria scolpita nella pietra: i Tempio delle Serpi Nere.
È lì che ho vissuto la mia infanzia. Nel Tempio. Con le sacerdotesse. Con la vestale, guida di noi tutte. Con mia madre. A detta della vecchia, lei era la predestinata. Colei che avrebbe occupato il suo posto, nel momento in cui si sarebbe adagiata tra le braccia di quella Madre che aveva servito in vita. E così la istruiva, introducendola all’arte dell’Erbologia di base e alla creazione di veleni estratti dagli animali. Era così che mia madre trascorreva le sue giornate, dedicandole in toto allo studio e lasciando me in “compagnia” delle Sacerdotesse, che vedevano in me il tributo per la Serpe, quella Serpe che, intrufolandosi nella mente di Albeth con una visione, ci sottrasse alle braccia della Morte.
Gli unici momenti della giornata che Alexandra dedicava a me erano percorsi dalla sua fastidiosa ossessione per la mia istruzione. Mi insegnò, sera dopo sera, le lingue alle quali lei era legata e alle quali avrei dovuto esserlo pure io: il Norreno, appreso al forte di Embasts, e il Gaelico, appreso durante la sua permanenza al forte di Crysanies, quando io ancora non ero nei suoi pensieri, ammesso che vi sia mai stata. Di tanto in tanto cercava di attirare la mi attenzione mostrandomi le erbe che studiava, quelle che già conosceva e padroneggiava, descrivendomi le loro proprietà e gli effetti che potevano sortire se debitamente usate e lavorate. Ed io, tacitamente, quasi senza interesse, quasi terrorizzata dall’autorità che la sua voce lasciava trasparire, senza lasciare il minimo spazio a quell’affetto che una madre dovrebbe provare per la propria figlia, appresi i suoi insegnamenti. Feci mie tutte quelle conoscenze che avrei disdegnato…
La vita al Tempio, dunque, trascorreva tranquilla per me. Fino a quando non fui in grado di camminare da sola. Fino a quando non avevo più bisogno delle braccia di mia madre per spostarmi da un luogo all’altro. Lei era sempre assorta nei suoi studi, divorata dalla sua brama di conoscenza. Ed io iniziavo a disprezzarla. Strano, vero? Non capita tutti i giorni di imbattersi in una figlia che disprezza la madre. Che prova quasi nausea nel contemplare il volto o nell’assaporare il tocco di colei che ti ha concesso di stare in questo mondo. Le rare volte che quel tocco era concesso… Ed è altrettanto strano osser¬vare una madre che non prova il seppur minimo dolore nel constatare questo distacco dal sangue del suo sangue. Ma lei era così…interessata solo alla sua vocazione, alla sua cultura, al suo Destino. Non a quello della sua creatura. E fu per questo che una notte, quando io avevo appena 5 anni, prese tutto ciò che le apparteneva e mi lasciò. Se ne andò per la sua strada, senza preoccuparsi di me, pulendosi la coscienza affidandomi alla vecchia. Posso dire di avere sofferto il distacco? Non lo so con esattezza. È difficile individuare con precisione nella mente di una bambina, tra mille sensazioni che vi si agitano, quale sia la dominante. Rabbia, delusione, improvvisa solitudine, ma anche un affascinante e seducente senso di libertà. Sì, libertà. Perché non ero più costretta a sorbirmi indirettamente le sue lezioni. Non ero più vittima di quella coercitiva acculturazione a cui mi sottoponeva. Cercava di trasmettermi la sua passione. Cercava di coltivare in me il germoglio dell’interesse per la magia. Innaffiava quel seme che, diceva, era innestato nella mia anima. Forse è per questo che ho iniziato ad odiare la magia. Perché la vedevo come una costrizione e non come un piacere. Assillante quando mi istruiva sulle proprietà delle erbe. Insopportabile quando tentava di insegnarmi le lingue arcane che la attiravano come calamita col me¬tallo. Ma io ero solo una bambina…ma io avrei voluto star con altra gente della mia età…con gente normale che non era ossessionata dal misticismo e dall’esoterismo. Lei non capiva…lei non accettava…ed io mi allontanavo sempre più da quello che era il suo progetto.


oO° La Luna del Ghiaccio °Oo


È un momento di guarigione, di ricarica interiore. Invita all’analisi della propria individualità per potersi migliorare in futuro. L’analisi va effet¬tuata con grande attenzione ed onestà, poiché sarà fondamentale per prepararsi alla luna successiva.

Se ne andò. Senza nemmeno salutarmi. Come svanita nel nulla. Come se non fosse mai esistita. O meglio, come se io non esistessi per lei. Mi abbandonò alle cure di quella vecchia pazza e delle sue ancelle che non facevano altro che pronunciare formule che ritenevano magiche. Non ho dato loro mai credito più di tanto. E, ormai libera dall’ombra di mia madre, lasciai che il mio animo ricercasse ciò che più gli era consono. Lasciai alla curiosità tipica dei bambini la fa¬coltà di scegliere un’arte che mi fosse più affine, per la quale avrei provato un maggiore interesse, che avrebbe fatto crescere il mio spirito di bambina. Scap¬pavo spesso dal Tempio e mi addentravo nel bosco vicino, come se intimamente sapessi che lì la mia anima avrebbe trovato ristoro, che ciò che oggi addito come mio unico Destino stesse proprio aspettando me…come se fossi a conoscenza del fatto che nel mio sangue un altro seme era stato gettato affinché fosse coltivato. E così un pomeriggio rimasi estasiata e in perfetto silenzio, mimetizzata con la Na¬tura selvaggia che conoscevo a menadito, ad osservare un gruppo di persone che non recitava formule magiche per scatenare chissà cosa o per creare chissà quale unguento. No. Quegli uomini giocavano…giocavano tra loro con delle cose che io non avevo mai visto. Ma che mi fecero rimanere a bocca aperta a guardare il loro sollazzo: quegli uomini sembravano divertirsi. E quando tornai al Tempio, dopo le solite punizioni cui la vecchia e le altre mi sottoponevano ogni qualvolta che fuggivo, chiesi alla vecchia, per la prima volta, dove fosse andata mia madre. E chi fosse mio padre. Non me ne ero mai interessata. Non mi aveva mai sfiorato la mente la curiosità di sapere chi fosse, probabilmente perché nei primi anni della mia vita fui attorniata solo da donne. Ma dopo aver visto quegli uomini, si accese come una scintilla in me.
La vecchia mi narrò una storia. Una storia che mia madre aveva sempre fatto in modo io ignorassi. E invece lei mi ritenne abbastanza grande da sapere. Avevo già quasi undici anni quando venni a conoscenza di essere figlia di un guerriero che aveva approfittato di mia ma¬dre e del quale lei si era successivamente vendicata. Ed era fuggita da quel forte dove era tenuta prigioniera, venendo colpita ad una spalla e crollando dopo giorni sotto il peso della stanchezza sulla neve. Su quella neve dove caddi pure io e che mi costrinse ad urlare. Ascoltavo quella storia con un certo distacco, come se non mi appartenesse, come se non volessi prendere le parti di mia madre e tentare di capire il suo comportamento. E iniziai a essere ossessionata dalla sua assenza. Non mi davo pace. Non accettavo il modo in cui ero stata abbandonata, non riuscivo ad accettare quel pensiero che mi stuzzicava la mente: che mia madre mi odiasse perché realizzazione materiale di quella violenza che aveva subito.
E forse fu per gioco o, meglio, per puro dispetto che decisi di seguire quell’istinto. Quell’impulso ad assomigliare a Colui che le aveva fatto del male…a mio padre. Quel lasciarmi trasportare dalla passione per qualcosa che nemmeno cono¬scevo. Più frequenti si fecero le mie fughe nella vicina foresta, tentando sempre di osservare nel più completo silenzio quegli uomini che giocavano. Ma un giorno un animale mi tradì. Sentii strisciare sulla mia gamba qualcosa di viscido e urlai senza pensare che sarei stata scoperta. E così quegli uomini si accorsero di me e vidi uno di loro venirmi incontro con il giocattolo tra le mani in modo minaccioso. In quel momento, ho creduto sul serio di morire…ho pensato per qualche istante che avrei incontrato presto quella fantomatica Madre di cui parlava sempre la vecchia. E invece il giocattolo si abbatté sulla coda di quell’animale che corteggiava la mia gamba, privandolo della vita che la Natura aveva lui concesso. Rimasi immobile a fissare quell’uomo, senza essere in grado di emettere un solo suono, come paralizzata. Ma il suo sguardo…quello lo sostenni. Sfacciata lo ero sempre stata. Egli mi porse la sua mano per aiutarmi ad alzarmi ma io la rifiutai. Indipendenza. Mi alzai e ripresi con eccessiva non chalance la via per tornare al Tempio. Ma fui bloccata da altri due uomini che giocavano con lui. Mi si pararono davanti ed io cercai persino di fuggire. Inutilmente. Mi condussero nel loro covo, un vecchio maniero che si dava per disabi¬tato, dove trovai altri cinque uomini. Mi dimenavo, tentavo di liberarmi da quella morsa ma ogni mio sforzo era vano. Fino a quando quell’uomo, quello che aveva usato il suo giocattolo per uccidere l’animale, fece impattare violen¬temente la sua mano contro la mia gota, strappandomi un sospiro rumoroso e un profondo senso di violazione. Iniziai a urlare, a scalpitare quasi fossi una cavalla selvaggia e di nuovo la sua mano si scontrò con la mia gota. Lo osservai a lungo. Stringendo i denti e trattenendo le lacrime che sarebbero sfuggite a ogni bambina della mia età. Ma non avevo intenzione di farlo godere del mio pianto. E mi limitai a respirare affannosamente e a stringere gli occhi. Appena egli si fu girato, quasi fosse scattata una molla, il mio piede sinistro cercò e rintracciò il suo corrispettivo polpaccio. Inaspettato gli giunse quel gesto, sì che egli si girò e mi donò un sorriso, la cui natura non riuscii a cogliere subito. Smisi di agitarmi, camminai dove mi condussero e non mi ribellai quando mi rinchiusero in una stanza con una piccola finestra, legandomi le gambe tra loro e i polsi a degli anelli metallici che fuoriuscivano dal muro di quella cella. Il pensiero di quel sorriso mi accompagnò nei giorni e nelle notti che trascorsi lì dentro, i primi due nemmeno l’ombra di cibo o acqua. Ma io ero completamente sedotta da quel sorriso. Ogni tanto lui apriva la porta e veniva a vedere se la belva si era calmata. Io tentavo sempre di saltargli addosso ma era davvero troppo possente per me e io troppo bloccata da quelle corde che mi costringevano alla quasi totale immobilità. Nei giorni seguenti iniziarono a nutrirmi ed io mi accorgevo che la vita con loro non era poi così malvagia. Anzi. Era eccitante. Da quella finestrella li spiavo mentre giocavano, fino a quando un giorno chiesi a Colui che capii suc¬cessivamente essere il loro capo di poter giocare con loro. Quelle lame lucenti sembravano gemme ed io ne ero attratta come la gazza col metallo.


oO° La Luna del Seme °Oo


È un periodo di cambiamenti e nuove opportunità, così come i semi che danno nuove piante. È una luna dedicata ai nuovi inizi e ai cambiamenti.


Quell’uomo non mi negò quanto avevo chiesto. Un giorno mi slegò, mi liberò da quella morsa nella quale mi trovavo stretta ormai da diversi giorni. Mi diede un giocattolo diverso da quelli che loro usavano e ne prese uno anche lui. Erano due bastoni di legno. Si chiuse con me dentro quella stanza, mi legò il braccio destro in vita con una corda e mi fece stringere con la sinistra quell’arma di legno. Come aveva capito quell’uomo che usavo sempre la mano sinistra per fare qualunque cosa? All’inizio additai quell’episodio a una pura coincidenza ma poi, come un lampo, la risposta mi s’impose davanti. Forse aveva avuto quell’intuizione giu¬sto perché quando mi fecero prigioniera e lo colpii, lo feci con il piede sinistro. Attento osservatore. E la cosa mi affascinò e mi costrinse quasi a donargli un sorriso carico di compiacimento e apprezzamento. Egli rimase sorpreso da quel mio gesto e puntò lo sguardo nel mio in modo così insistente che tutto ciò mi portò a credere che vi vedesse qualcosa di particolare. Si limitò a sussurrarmi con un velo di minaccia di iniziare a difendermi dai suoi attacchi. Il suo primo colpo non andò a segno e l’ingenuità di bambina m’infiammò di orgoglio sì da farmi perdere la concentrazione e cadere nella trappola che egli stesso aveva preparato per me. Mi colpì al fianco destro ma, a parte un sorriso che lasciava trasparire la sua sicurezza e la sua altezzosità, non mi rimproverò. Non usò un tono austero. Del resto, ero solo una bambina. Cosa avrebbe potuto aspettarsi? Mi disse solo di non lasciare mai scoperta la mia difesa, in modo tale che nessuno avrebbe potuto colpirmi con tanta facilità. Credo che quello fu il momento in cui il mio cuore di bimba gli appartenne per la prima volta. Il braccio legato mi dava fastidio ma era come se capissi che era giusto così. Seguirono quegli alle¬namenti, nei quali mi spiegò con enorme maestria e al tempo stesso con un’affascinante semplicità i colpi base dell’attacco. Mi assillava parlando di peso del corpo, di equilibrio e stabilità. Io pensavo che giocare fosse più facile…Mi insegnò a destreggiarmi con i pugnali, con i coltelli da lancio, persino con la frusta. Agli allenamenti con le armi si affiancavano quelli del corpo. Egli mi spiegava che era fondamentale la concentrazione e che la perfezione della mente non poteva essere separata dalla salubrità del corpo. Allenava il mio corpo affinchè diventasse agile e scattante, pronto a colpire senza alcuna difficoltà di movimento, migliorando i miei riflessi sottoponendomi ad attacchi improvvisi, in modo tale che fossi in grado di rispondere in modo reattivo. Un giorno, ingenuamente, gli esposi un’idea che da tempo mi si aggirava per la mente: quella di intingere le punte delle armi con dei veleni che avremmo imparato col tempo a creare da noi. Fu come un fulmine a ciel sereno. Per la seconda volta durante la mia permanenza al maniero la sua possente mano si sferrò con violenza contro il mio bel viso. Rimasi in silenzio, senza versare lacrime, ancora una volta. Solo dopo qualche istante, fiera e orgogliosa, chiesi con determinazione il perché di quel gesto. Egli sorrise, di quel solito sorriso di cui mi innamorai. E mi disse che usare i veleni era da vigliacchi, da Assassini principianti che non sanno qual punto colpire per essere letali. Non era una pratica che si adattava ai dei professionisti quali essi erano e quale io sarei dovuta diventare. Fu così che il mio Maestro insegnò anche l’anatomia del corpo umano, in modo da fare la scelta giusta della parte da colpire secondo la morte che desideravo donare. Ed io facevo tutto quello che lui mi ordinava. Allenai il mio corpo, vedendolo cambiare giorno dopo giorno. Sotto la spinta dell’allenamento era diventato nervoso e pronto, snello e scattante, senza privarsi di morbide curve che sbocciavano facendolo assomigliare a quello di una donna piuttosto che a quello di una ragazzina.
La mia prigionia ebbe fine. Non ero più rinchiusa in quella stanza costringente e stretta e spoglia e triste. No. Con il favore del resto del branco, diventai una di loro. Giocavano tutti con me ma io volevo solo ed esclusivamente il mio maestro. Cosa vedessi in lui di preciso, me lo chiedo ancora oggi. Forse la mancanza di quella figura paterna forte che mai avevo conosciuto? O semplicemente iniziavo a crescere e a provare quelle sensazioni da adulti? Non saprei dirlo con precisione. Forse, piuttosto, si trattava di stima e ammirazione. Nulla di più. Trascorse un anno senza quasi che ne avessi percezione e non accusavo minima¬mente la mancanza della vecchia, delle altre vestali del Tempio e dei loro riti. Non mi chiedevo nemmeno se loro mi avessero cercato. Se avessero avvertito la mia mancanza. Se la Serpe avesse fornito ad Albeth una nuova visione. Non m’importava. Io avevo tutto. Avevo loro. Quel branco di sconosciuti che avevano infiammato il mio animo con il loro gioco.
Poi venne quel giorno. Ormai mi destreggiavo, se non perfettamente, abbastanza discretamente con le armi, nonostante non avessi ancora il permesso di usare quelle offensive e non semplici bastoni. Venne il giorno in cui Lui, il mio Maestro, mi ritenne degna di essere custode di un segreto che solo loro condividevano. Mi mise al corrente di quel che loro facevano. Del perché si dilettavano a giocare con quelle armi. Ed era così affascinante mentre me lo raccontava che, alla fine del suo discorso, gli gettai le braccia al collo, in segno di profonda gratitudine e di ringraziamento per quella fiducia che, capivo, mi era stata concessa. Una setta di assassini. Semplici tali. Che giocavano per il puro piacere di giocare. Non erano mercenari. Non erano pagati. Derubavano semplicemente le loro vittime. Mi spiegò la loro filosofia. Mi parlò della sopravvivenza. Della coltivazione dei propri ideali. Dell’insaziabile voglia di sangue. Dell’importanza di alimentare quella forza e quella fiamma che si agitava in loro…e che si agitava anche in me.


oO° La Luna delle Gemme °Oo


In questo periodo i semi danno le prime gemme, così nella vita spirituale c’è una rinascita. È il momento di massima produttività spirituale, gra¬zie anche all’aumento dell’energia.

Mi sentii tutta un fuoco al solo pensiero che sarei diventata una di loro. Che sarei diventata una guerriera come lo era stato mio padre. E inevitabilmente il mio pensiero volò a mia madre…quanto sarebbe lei stata contenta di questo mio successo? Poco, se non addirittura nulla. Sarei andata ben oltre il campo che lei aveva scelto per me, affidandomi alle Serpi Nere. Sarei andata ad invadere quel campo che riguardava l’uomo che le aveva sottratto la giovinezza. Oh che cosa inebriante! Oh che sensazione seducente il poterle dare quel dolore! Ricominciò la mia ossessione per la sua dipartita. Non passava notte in cui non cercavo di af¬ferrare la sua immagine e la sua voce sfuggente. Non trascorreva giorno in cui non meditavo la mia vendetta nei suoi confronti. Non scivolava via Luna senza che io vi volgessi costantemente lo sguardo e cercassi in Lei un’ispirazione, un suggerimento. Iniziarono i veri allenamenti. Il mio braccio destro non era più legato ma strin¬geva una seconda arma ed io avevo appreso le tecniche di difesa e attacco. Le spade non erano più meri bastoni ma lame taglienti e affilate nelle quali solevo specchiarmi per osservare, vittima della vanità, la bellezza che non mi era stata negata. E così trascorsero i primi due anni di adde¬stramento, che volgeva alla sua fine...fine che doveva essere suggellata da qualcosa di forte e importante. Il mio Maestro un giorno mi fece entrare nella sua camera, mi lasciò sedere sulle sue ginocchia e iniziò a tessere le mie lodi. Quanto fossi bella, quanto fossi diventata abile nonostante la mia giovanissima età. Fu quella la prima volta in cui mi chiamò con quell’appellativo che mai più mi sarei staccata di dosso: Bambina della Morte. Baciò le mie labbra. Le baciò ripetutamente, ponendo in quel gesto tutto l’ardore che probabilmente aveva soffocato nei mesi precedenti. Ed io, bambina, non mi sottrassi. Lasciai che con quel gesto diventassi sua del tutto, gli donai tutta me stessa come segno di profondo riconoscimento per avermi salvato da un’esistenza infelice, per aver fatto di me un’arma di morte e aver fatto crescere il germoglio di distruzione che mio padre aveva gettato in me.
Mi disse che le mie qualità andavano sfruttate, che la mia bellezza andava usata, che la mia temerarietà e la mia naturale predisposizione all’inganno avrebbero giocato a nostro favore, se debitamente “addestrate”. Mi disse che nessuno avrebbe mai avuto paura o sospettato di un demone vestito da angelo. Fu così che mi introdusse all’arte della menzogna e del travestimento. Mi spiegò quanto fosse importante bramare la fiducia cieca della propria vittima e assumere atteggiamenti diversi a seconda di chi mi trovavo davanti.
E fu così che nacquero Jade e Madame Melanie. I miei due travestimenti.
Jade…un ragazzetto sporco e trasandato, povero quanto la vita degli uomini che votano la loro esistenza alla ricerca spasmodica della felicità e della bontà, del quieto vivere e della fratellanza oltre ogni confine. Un ragazzetto necessariamente muto, per non svelare la voce di donna che stava sbocciando in me. Vestito con abiti piuttosto larghi per nascondere le mie forme sinuose che il Maestro costringeva attraverso larghe fasce strette attorno al busto. Un ragazzetto che chiedeva l’elemosina e implorava con il solo sguardo traboccante di lacrime appena trattenute la pietà di quegli uomini che del bene si facevano paladini. Un ragazzino che colpiva quando meno te lo aspettavi con un coltello così infimamente piccolo ma estrmamente efficace. L’importante era colpire il punto giusto. Ed io, grazie agli insegnamenti del mio Maestro, sapevo qual era quel punto.
Madame Melanie…un’aristocratica e sfarzosa donna, la cui dialettica è pressoché impeccabile. Sfoggiavo tutta la mia bellezza quando ne indossavo i panni, imparando a valorizzare alcuni punti del viso…le gote con la cipria, le labbra con il rossetto, gli occhi con il bistro accuratamente delineato. Adoravo interpretare Melanie per fare di me una donna, nonostante fossi ancora una bambina. Nonostante quelli che erano diventati i miei confratelli, la mia unica e vera fa¬miglia, mi considerassero tale. E più di tutti Lui, il mio Maestro, che era in adorazione della mia bellezza, come un marito lo sarebbe della propria donna; che era orgoglioso di me, come un padre lo sarebbe della sua creatura; che non perdeva occasione per sfoggiare davanti ai suoi compagni la mia efficacia, come l’uomo di scienza farebbe della sua invenzione. Perché ero questo in effetti. Una sua creazione…la migliore. La sua soddisfazione…la più grande. La sua gemma…la più preziosa. La Dea, come il nome in codice che mi affidava per le mie missioni.

oO° La Luna del Fiore °Oo


Nei sabbat si festeggia l’unione tra il Dio e la Dea. Il potere della Dea aumenta e aiuta a concretizzare qualsiasi lavoro spirituale intrapreso.

E così iniziò la mia carriera. E ricordo tutto il rituale che faceva da prologo ad ogni mia missione. Il mio Maestro si inoltrava nella mia stanza, senza richiedere permesso alcuno. Mi osservava davanti lo specchio intenta a preparare il mio travestimento e iniziava a sfiorarmi, senza chiedere il permesso. Del resto, si chiede, forse, il permesso per toccare qualcosa che ci appartiene? No. Ed io sono sempre appartenuta a lui, sin dal primo giorno. Inesorabilmente legata a lui da un filo che sol a noi era dovuto vedere. Condividevamo quella sorta di amore colpevole, tra un uomo e una bambina. Un amore che il mondo bigotto non avrebbe mai avallato se non si fosse celato dietro esso una sorta di malsano interesse di tipo economico. Ma il nostro era amore. Profondo. Inevitabile. A cui nessuno dei due si era mai negato. Profondo conoscitore del mio animo, delle mie voglie, delle mie repulsioni. Dei miei punti deboli. Lui amava dominarmi. Fisicamente. Ma sapeva che il suo spirito, il suo essere, apparteneva a me. Ed ero io a governarlo. Cedevamo alla lussuria senza pentimento, al vizio del vino, ai peccati di gola, alla superbia, all’avarizia. Eravamo la gloriosa macchia nera nello splendore e nella rettitudine di quel paese nei pressi della Montagna Urzas che ignorava la nostra esistenza. Noi, belli e dannati, superbi e lussuriosi. Noi in perfetta armonia di spirito e corpo.
Prima di lasciarmi uscire da quella stanza nei panni di Melanie mi stringeva a sé, lasciava scorrere le sue mani bramose sul mio corpo invitante, mi sfiorava il collo con le labbra fino a sussurrarmi: **sarai ancora mia, vero bambina?** e la mia risposta era sempre la stessa, dettata non dall’abitudine ma piuttosto da reale convinzione *§* per sempre tua *§*. Doveva dilaniarlo il pensiero della sua Dea che seduceva altri uomini…
Ricordo ancora il primo uomo alla cui misera esi¬stenza posi fine. Un valoroso cavaliere della vicina corte. Un uomo così stupido da cedere languidamente ad ogni mia moina o gesto o parola. Completamente incantato davanti a sì tanta destrezza, brillantezza, bellezza. È bastato fargli bere qualche bicchiere di troppo, esortandolo ogni volta a brindare a me. Ed è bastato mettere a frutto gli insegnamenti e i mesi di duro lavoro cui il mio Maestro mi sottoponeva. Sfruttare quell’agilità che avevo imparato a fare mia, compiendo quei movimenti che non mi costavano alcuna difficoltà e che venivano eseguiti in modo del tutto spontaneo. Era così che uccideva Melanie…con la dolcezza e con la prontezza di riflessi, che metteva il mio avversario in difficoltà, incapace di contrastare i miei colpi precisi, di anticipare le mie mosse. Donavo alle mie vittime ciò che loro ricercavano. Li studiavo per capire come colpirli. Attenta osservatrice. Proprio come il mio Dio, proprio come colui che senso aveva dato alla mia esistenza e alimentato la fiamma che mi logorava dentro. Non sono in grado di de¬scrivere perfettamente le sensazioni che mi animavano quando compivo il mio lavoro. C’era eccitazione mista a una paura ben celata ma che sostava nel fondo del mio essere, come si confà ad una bambina. Ho sempre creduto che la paura è un’ottima compagna nelle missioni, perché aiuta a capire il reale valore che ha la propria vita…e nelle missioni, o salvi la tua vita o la perdi. Non esistono altre alternative. Nel mio animo c’era pure un forte senso di soddisfazione…un estremo orgoglio e una brama di onnipotenza che non facevano altro che gonfiare il mio ego già smisurato. C’era quell’assurda dipendenza da rischio che mi portava ad azzardare qualche mossa, consapevole che le mie capacità erano tali da potermi permettere di fare ciò che gli altri avrebbero reputato incosciente, che mi conduceva estremamente vicino al mio nemico sì da poter lui sussurrare il mio sollazzo nel vederlo morire. Ma mancava sempre qualcosa. Alla fine di ogni missione mi sentivo sempre in difetto, ossessionata dal peso del fardello che portavo con me…la mia essenza bramava altro…la mia anima anelava vendetta…la mia meta era e rimaneva lei…lei che mi aveva abbandonato. Prendere le vite altrui mi aiutava solo ad andare avanti, a donare un illusorio sollievo a quella rabbia che come fuoco lambiva ogni singola parte della mia anima corrotta.


oO° La Luna del Miele °Oo


È un momento ricco della natura e dedicato ai cambiamenti in positivo. È una luna che invita a prenderci le nostre responsabilità.

Non trovava ristoro totale la mia essenza, richiedeva sempre di più. Reclamava sempre una maggiore consapevolezza delle proprie capacità, della propria forza. Ma quella forza, che trovava il suo punto di massimo splendore nel momento in cui donavo alla morte una nuova anima, lentamente, col passare delle ore, si andava sgretolando, lasciando il passo ad un inesorabile senso di insoddisfazione. L’immagine e a voce di Alexandra assillavano le mie notti, le rendevano inquiete e nemmeno la condivisione del talamo con il mio Maestro mi donava consolazione. Nel fondo del mio essere si fece avanti una convinzione. Che tutto quel che avevo fatto fino a quel momento, tutto ciò che avevo imparato, tutte le vite di cui mi ero appropriata non erano altro che una sorta di tirocinio. Un cammino obbligato, un tributo che dovevo pagare se volevo avere la mia vendetta su colei che mi aveva privato di tutto: dell’amore di una madre, di un padre, di una vita tranquilla, lontana dal sangue e dall’orrore. Ma era veramente questo che volevo? Non lo sapevo e mai lo saprò. Il dubbio cavalcherà le radure della mia vita in eterno, perché non sono in grado di dire se veramente avrei voluto una vita diversa. Era, però, la mancanza della possibilità di sceglierla la mia vita che mi mandava in bestia, che mi costringeva a tenere i pugni stretti nel buio, che mi tormentava e non mi faceva godere appieno quel che avevo. Avevo delle precise responsabilità in questo? Avrei potuto, fino a quando Alexandra era con me, tentare di cambiare le cose? Ma ero solo una bambina…avevo solo 5 anni quando quella maledetta donna mi abbandonò! Cosa potevo fare? altra domanda che rimase senza risposta ma che non lasciò spazio ad una giustificazione. Non riuscii a giustificarmi appieno per la mia inattività, per non essermi ribellata a mia madre e per aver lasciato che la mia vita iniziasse solo quando lei mi abbandonò. Se fossi stata al posto suo, Io, che avrei fatto? Mi sarei comportata diversamente? Iniziarono ad assillarmi questi quesiti, probabilmente in seguito al mio donarmi costantemente al Maestro, senza ritegno o pudore alcuno. Probabilmente in seguito a quella strana sensazione che cominciai ad avvertire. Mi sentivo stanca la mattina in particolar modo, accusavo dei dolori di cui facevo tesoro, nascondendoli soprattutto a lui. E quelli che si insinuavano solo come dubbi iniziarono a lasciare spazio a certezze nel momento in cui per due volte consecutive saltai il mio appuntamento mensile con il mio essere donna. E fu allora che la disperazione mi colse, screziata da punte di vero piacere e pura gioia. Sarei stata madre. Una creatura si faceva spazio nel mi ventre che iniziava ad arrotondarsi. Avrei vestito i panni di Alexandra. Sarei stata all’altezza? Avrei saputo donare a quell’essere qualcosa di più? Avrei saputo metterlo in condizioni di scegliersi il proprio destino, senza influenzarlo con le mie parole, i miei gesti, le mie ossessioni? E lui, Il Maestro, avrebbe accettato di diventare padre del figlio che avrei partorito? Non ne ero sicura. E così nascosi lui la lieta novella, iniziando a riflettere sulla mia vita futura, su ciò che sarebbe cambiato, su ciò su cui avrei potuto fare affidamento. Me stessa. Iniziai a fantasticare sul nome: se fosse stato un maschio mi sarebbe piaciuto chiamarlo Niördhr , Il nome del Dio scandinavo della stirpe dei Vani che sposò Skadi, figlia del gigante Thiazi e generò Freir e Freya che accolti nell'olimpo germanico, divennero rispettivamente dio della Felicità e dea dell'Amore. Se fosse stata una femmina, l’avrei chiamata Skadi, come la bellissima figlia del gigante Thiazi, moglie del dio marino Njördhr col quale generarono Freir e dal quale poi si liberò per unirsi a Odino e generare Saming.
E avrei smesso con quella vita. Avrei abbandonato le armi e il mio diletto. Per ciò che in grembo mi cresceva. Avevo un dovere nei confronti di quella nuova vita. Ma non avrei saputo dargli tutta me stessa se prima non avessi trovato la mia pace…


oO° La Luna del Raccolto °Oo


La natura è al suo splendore, inoltre inizia il primo raccolto. Il Dio è al massimo del suo splendore, quindi questa luna è dedicata a pratiche particolari, che richiedono molta forza e molta attenzione.

E così presi quella decisione. Un giorno, dopo che ebbi compiuto il mio 14° anno di vita, mentre mi trovavo nella mia stanza con il Maestro, decisi di aprire lui la mia anima, di rendergli noti tutti gli incubi che non mi concedevano tregua, tutto ciò che dentro mi si agitava; decisi di condividere con lui le mie ossessioni, il mio non saper smettere di pensare ad Alexandra. Il mio esigere vendetta nei suoi confronti. Egli aveva sempre saputo che cosa la mia mente partoriva, cosa pretendeva e aveva sempre temuto che quel sentimento sarebbe venuto a galla a riscuotere il proprio tributo. Quello era il momento. Mi strinse tra le sue braccia, mi donò i suoi baci e le sue carezze che, se da un lato mi strapparono brividi di piacere, dall’altro quasi cercai di rifuggirle poiché il posto che Egli occupava nel mio cuore si era ridotto per fare spazio ad un nuovo amore di cui egli ancora ignorava l’esistenza.
Rimanemmo chiusi in quella stanza per tutto il giorno e durante quelle ore raccontai nei minimi dettagli ciò di cui sempre avevo solo narrato per accenni. La mia vita al Tempio, le sacerdotesse, Albeth, il culto della Serpe, mia madre e i suoi studi, la notte del suo abbandono, il mattino del mio primo giorno senza lei, il racconto della vecchia su mio padre, la mia passione per le armi derivata anche da un senso di dispetto nei confronti di Alexandra. Egli mi ascoltò nel più religioso dei silenzi, conservando le sue domande per porle nel momento in cui io ebbi smesso di tracciare le fila della mia storia.
** Hai idea di dove tua madre possa essere andata? **
*§* No, non lo so proprio. Non saprei da dove iniziare le mie ricerche. Quella pazza sarà partita alla volta di qualche villaggio chissà per quale motivo. Magari la Serpe le ha indicato la strada. Ha sempre saputo della sua passione per la Magia…e pretendeva che io fossi rimasta a servire il suo culto! Culto! Ma quale culto! Quale Dea! Maledette pazze! Sarei diventata come loro se solo tu… *§*
** Magari era quello il tuo destino, bambina mia. Magari tua madre è venuta al Tempio a riprenderti, senza trovarti… **
*§* Andiamo, Maestro! Non ci credi nemmeno tu! Non raccontarmi favole! Sarò pure una bambina ma ho smesso di crederci fin troppo tempo fa. Ho smesso di crederci aspettando il suo ritorno…Albeth, quella vecchia dannata…magari lei sa dove si trova Alexandra. Ammesso che sia arrivata a destinazione… *§*
Avvenne tutto nel momento in cui le mie ultime parole scivolarono via dalla bocca. Fu un attimo. Scomparve il mondo attorno, il Maestro, la mia stanza…sbarrai gli occhi, spalancai la bocca e entrai quasi in stato di shock, come proiettate in una dimensione onirica. Osservai la scena che la mia mente stava mettendo in atto. Vidi le immagini scorrermi davanti come se le stessi vivendo in prima persona. Vidi la figura di mia madre morente nei pressi di un lago, con un pugnale che faceva bella mostra di sé al centro di quel petto prosperoso. E poi c’era sangue…sangue sparso ovunque, sangue che imbrattava quella sabbia sulla quale era adagiata. E una rosa nera ad adornare i suoi capelli ramati. Non so quanto durò quella serie di immagini. So solo che, scossa dal Maestro, tornai al mio mondo, presa in una morsa dal terrore più puro. Il terrore che qualcun altro avesse messo in atto ciò che alla mia mano e al mio braccio toccava compiere. Urlai, iniziai a dimenarmi ma c’erano le braccia forti e sicure del Maestro a donarmi consolazione mentre convulsamente raccontavo del mio sogno ad occhi aperti.
** È tutto finito, piccola. È tutto finito. Sta tranquilla… **
*§* Ma, ma…era tutto così reale…così terribilmente reale! Dove ero? Perché ho visto Alexandra morente? Dove si trova quel lago? Quella sabbia? Non ho memoria di un luogo del genere…non possono averla uccisa, dannazione! Cosa farò io? Se lei è morta, cosa farò io! *§*
E mi sciolsi in un pianto disperato. E qualcosa dentro iniziò ad insinuarmi il dubbio: piangi per la sua morte o perché non potrai avere la tua vendetta? Quella domanda, che si presentò al mio giudizio ogni giorno a venire, non trovò mai una risposta…
Con il Maestro, nei giorni seguenti, elaborammo un piano. C’era solo un modo per sapere dove fosse mia madre. Fare ritorno al Tempio. Ma era necessario tenere conto di tutto. Come avrebbero reagito le sacerdotesse nel vedermi tornare? Era passato così tanto tempo…sarebbero state ancora lì? Albeth sarebbe stata ancora in questo mondo? Avrebbe tentato di uccidermi? Mi avrebbe rivelato dove si trovava Alexandra? Tutto andava considerato nei minimi dettagli.
Il Maestro decise che sarebbe venuto con me per coprirmi le spalle, che mi avrebbe accompagnato nel giorno della mia partenza e sarebbe venuto a riprendermi dopo il settimo giorno trascorso al Tempio. Avrei portato con me i miei coltelli da lancio e lui e i suoi uomini avrebbero fatto i turni nei pressi del Tempio per controllare che tutto filasse per il verso giusto. Accettai. Erano tutti uomini esperti. Non c’era nulla da temere…


oO° La Luna del Grano °Oo


Ricorda il raccolto del grano ed invita tutti i praticanti a prendere esempio da questo frutto che, oltre a fornire nutrimento, si rigenera dai suoi semi. Invita a riflettere su quanto abbiamo fatto finora, e da quali aspetti positivi della nostra vita possiamo seminare nuovamente per poterci mi¬gliorare ancora.

La notte prima della partenza passai in rassegna tutta la mia giovane vita. Dall’abbandono di Alexandra all’incontro con il Maestro, alla mia nuova vita con lui e i suoi uomini, a ciò che nel grembo faceva sentire la propria presenza. E mi ritrovai a non provare più nemmeno l’ombra di quella tristezza che faceva sempre capolino nei miei momenti di riflessione. No. Ero serena. Conscia di quello che l’indomani avrei dovuto affrontare e bramante di rincontrare mia madre, di prendermi la mia vendetta, di tornare dal mio amato uomo e donargli quella creatura, frutta del nostro amore colpevole. E allora, pur dovendo abbandonare le mie missioni nei primi anni di vita del mio piccolo, sarei stata felice. Avrei continuato a tirare di spada, ad esercitarmi con i coltelli e lo avrei insegnato pure al frutto del mio ventre. Sì. Sarebbe stato un abile combattente pure lui…o lei. E io, come la Fenice, sarei rinata dalle mie ceneri. Dai miei tormenti e dalle mie ossessioni. Il mio animo avrebbe trovato la pace e io…Io avrei dimenticato tutto e avrei ricominciato da capo. Migliorandomi. Diventando quel tipo di madre e quel tipo di donna di cui non avevo avuto alcuno esempio. Sorrisi. Mi strinsi al mio uomo. E il sonno giunse.


oO° La Luna della Vendemmia °Oo


È l’ultimo raccolto, insieme all’uva ci sono gli ultimi frutti. È giunto il momento di rilassarsi, dedicandosi all’armonia tra corpo e spirito, tor¬nando il più possibile a contatto con la natura.

E fu sera e fu mattino. Il mio bagaglio era già pronto. Io ero già pronta sulla soglia della porta. Il Maestro e tre dei suoi uomini erano già montati a cavallo. Sheila, la mia cavalla nera, attendeva impaziente che mi adagiassi su di lei. Avevo insistito io per andare a cavallo, nonostante la distanza fosse minima. Avevo nascosto la mia preoccupazione per la creatura che mi cresceva in grembo con una maggior possibilità di fuga nel momento in cui ve ne sarebbe stato bisogno. Giungemmo nei pressi della galleria scolpita nella pietra che faceva da ingresso al Tempio. Loro rimasero lì. Io scesi da cavallo. Mi diressi verso il mio Maestro, lo baciai con passione, lasciai che le sue braccia mi stringessero forte e che le sue mani passassero prima sul mio seno e poi sul mio ventre.
*§* due settimane…torna tra due settimane…*§*
** perché così tanto tempo, bambina? **
*§* potrei metterci più del necessario ad estrarre le informazioni dalla bocca di quella vecchia. E poi devo fargli credere che tornerò per servire la Serpe… *§*
** sta’ attenta, amore mio **
*§* e tu sta’ tranquillo, Maestro. Starò attenta per me…ma soprattutto per lui…*§*
E in quel momento le mie mani raggiunsero le sue sul mio ventre. Bastò solo che uno sguardo facesse seguito a quelle parole appena pronunciate. E i suoi occhi e il suo sorriso si illuminarono, sfiorati da quel velo di stupore misto a gioia pura. Sorrisi ancora e mi liberai dalle sue braccia, allontanandomi poco alla volta, camminando indietro per non lasciarmi sfuggire nemmeno un solo istante di quel volto della Felicità.
Non appena imboccai la galleria scorsi in lontananza il profilo austero del Tempio e una figura di donna quasi ad attendermi davanti la porta. Albeth. Cara, maledetta vecchia. Era ancora viva. Sorrisi per niente stupita del suo trovarsi lì ad aspettarmi. Mi ero sempre chiesta se sapesse qualcosa di me, dove fossi, se mi avesse cercato, se avesse avuto qualche visione. Adesso quelle domande avevano trovato risposta. Non ho mai creduto alle coincidenze. Lei mi attendeva. Mi sorrise e mi venne incontro:
.~. Bentornata Ithilbor, figlia della Serpe. Bentornata a casa .~.
*§* Salute a te Albeth. Immagino che già mi stavi attendendo. Lodevole Serpe…ti concede ancora le sue visioni, eh? *§*
.~. Non c’è figlio che non faccia il proprio ritorno a casa, bambina. Come sei cresciuta! Come sei diventata bella! Ah se solo tua madre potesse vederti! Se solo… .~.
*§* Non osare, vecchia! Non osare nominarla. Non chiamarla a quel modo. Lei è solo…Alexandra… *§*
Sorrise, Albeth. Tornai in quel Tempio ove avevo trascorso la mia infanzia. Rividi quei luoghi familiari che, in un certo senso, mi erano persino mancati. Iniziai a provare una forte nostalgia, un sentimento che non mi aspettavo di provare. Sospirai e mi inoltrai in quella che era la mia vecchia stanza. Le altre sacerdotesse vennero una dopo l’altra a darmi il loro benvenuto. Ma tutto era così strano…troppa bontà da parte di coloro che a punizione di sovente mi sottoponevano. Vigile, attenta, con una buona dose di diffidenza, ripresi possesso di quel mondo. I primi tre giorni trascorsero nella calma più assoluta. Stavo riprendendo familiarità con quel posto. Il quarto giorno andai nella cella di Albeth. Non mi diede il tempo nemmeno di bussare quella vecchia, che mi invitò ad entrare.
.~. entra pure mia cara. E siediti. Ti è dato sapere tutto. Ma a tempo debito .~.
*§* tu sai benissimo cosa io voglio sapere. Sai perché sono tornata. Voglio questo sacrificio. Voglio questa vendetta. Per la Serpe. Per placare il mio spirito e potermi dedicare a Lei completamente. Del resto, è questo il mio Destino. Tu l’hai sempre saputo… *§*
.~. e la creatura che cresci in grembo, bambina? Non conta nulla per te? E quell’uomo che ti ha fatto da padre, amante, padrone e servo? Cosa ne farai di lui? .~.
Sorrisi. E indossai la maschera. Quella maschera che Albeth voleva vedere. Della devota serva del suo culto. L’arte della menzogna e dell’inganno che il mio uomo mi aveva sapientemente insegnato, fecero di me una perfetta millantatrice, in grado in primis di illudere se stessa, di convincersi della sua menzogna sì da farla apparire vera anche agli altri.
*§* cosa credi che conti per me quell’uomo? Pensi davvero che potrei concedermi ad un mortale? Che potrei sfuggire al mio Destino per un semplice uomo, affascinante per quanto sia? Ho avuto quel volevo da lui. Ho imparato l’arte della scherma, della furtività, il mio corpo è allenato, pronto, scattante, come quello che probabilmente fu di mio padre. Ma ben due semi sono stati gettati nel mio animo. il seme della guerra è cresciuto. Adesso va coltivato quello che Alexandra ha lasciato in sospeso… *§*
.~. E così sia, figlia della Serpe. Il tuo addestramento al culto della Serpe avrà inizio domani. Una sola luna. E procederemo alla cerimonia di accoglienza nelle gloriose fila della nostra Dea! E solo dopo il rito saprai dove dissetarti del sangue che brami…Manda la tua cavalla al tuo uomo. Dagli il tuo addio. Di’ lui di non cercarti più, pena la morte. Subito. .~.
E ancora della soddisfazione indossai la maschera la cospetto della vecchia, nonostante dentro il solo pensiero che la sua vita potesse essere interrotta mi dilaniava. Raggiunsi in fretta la mia cella, scrissi al Maestro poche parole in un tono in cui non mi piaceva rivolgermi a lui. Ma la vendetta richiede dei sacrifici…del resto, nel mio animo giaceva la consolazione che lui avrebbe compreso.
*§* Mio Maestro. Devo seguire la mia strada, quella che il Destino ha tracciato per me. Rimarrò qui. Diventerò serva della Serpe e troverò mia madre e verserò il suo sangue in sacrificio alla mia Dea. La mia vita con te ha trovato oggi la sua fine. Prendi la mia cavalla. Sarà l’unica cosa che ti ricorderà me. *§*
Iniziò dal mattino seguente il mio addestramento. Mi gettai sui libri di Erbologia su cui Alexandra aveva studiato, ascoltai le oratorie della vecchia sui veleni animali, ricordando quello schiaffo che si diresse dalla mano possente del mio Maestro sulla mia guancia al solo accennare a volerli usare nelle punte delle armi. Continuai nella mia stanza, la sera, ad allenarmi con i coltelli da lancio e un vecchio bastone diventò la mia spada. Non volevo dimenticare, non volevo che il mio corpo mettesse da parte quegli anni di sapiente addestramento e non volevo perdere dimestichezza con quelle lame che erano il mio diletto. Con quelle avrei ottenuto la mia vendetta.
La mattina prima che il rito avesse compimento, la vecchia mi disse di dirigermi al bosco vicino, dove da piccola spiavo coloro che sarebbero diventati la mia famiglia, di trovare la comunione totale con la Natura che avrebbe dovuto essermi benevola. Sapevo che, nonostante il Maestro avesse ricevuto il mio messaggio, non avrebbe smesso di fare la pattuglia nei pressi del Tempio. Trascorsi nella foresta un’intera giornata, nel silenzio più totale, consapevole che Lui o chi per Lui mi stesse osservando. Era troppa l’emozione del sentirlo così vicino e al calar della sera, prima di tornare al Tempio, mi abbandonai alla forza dei sentimenti che il mio animo non aveva dimenticato. *§* tornerò da te vittoriosa, amore mio. Tutto questo avrà fine e la felicità giungerà nella nostra vita *§*. Mi maledissi per quella debolezza, sapendo che la Serpe, con il suo occhio, vigilava su di me. E temetti di aver perso tutto.
Tornata al Tempio Albeth mi disse che la nostra Dea era soddisfatta del mio operato e che ancora pochi giorni e sarei entrata nella schiera delle Elette. Mi illusi di aver ingannato anche la divinità in un impeto di onnipotenza e lasciai trascorrere quel giorno nella tranquillità più totale.


oO° La Luna delle Foglie °Oo


Anche conosciuta come “Luna del Sangue”. Originariamente era dedicata agli animali cacciati, si ricordava il loro spirito e li si ringraziava per il nutrimento che donavano con la loro morte. Anche oggi è dedicata agli animali selvaggi, invitando alla riflessione sulle loro caratteristiche, spe¬rando di imparare da loro per poterci migliorare.

Venne il fatidico giorno. La mia veste sacerdotale era pronta. Scarlatta con ricami dorati, lunga fino ai piedi, non abbastanza stretta da mettere in risalto il mio ventre rotondo. Partecipai al rito, pronunciai le formule che avevo imparato, non mi sottrassi a nulla. E versai il mio sangue nel calice che avrei donato alla statua della Divinità. Fu dopo la cerimonia che Albeth mi condusse nella sua cella, tessendo le mie lodi per essere stata una perfetta figlia devota alla Madre. Sorrisi compiaciuta ed ella iniziò il suo monologo, porgendomi un libro:
.~. prendi questo libro e lascia che sia lui a donarti il sapere che brami. Se veramente sei entrata nelle grazie della Serpe, ella saprà indicarti dove trovare la tua vendetta. Alexandra non era un’Eletta, ha seguito imperterrita la sua strada. Se ne è andata una notte affidandoti a noi. Non è più tornata a cercarti. Ma c’è qualcosa che vi accomuna. C’è un filo indissolubile che vi lega l’una all’altra. Ella ti ha donato la vita e tu a le devi la tua esistenza. Non puoi negarlo, Ithilbor, figlia della Luna. Prendi questo. È un ciondolo che racchiude al suo interno una treccia di capelli, formata dai tuoi con quelli di tua madre. Ella ne possiede uno uguale. Glielo donai la notte che partì. Quando la troverai, bambina, mostraglielo. E lei saprà che quella sarà l’ultima cosa che i suoi occhi vedranno .~.
Presi quel ciondolo tra le mani e, dopo averlo osservato, lo legai al collo. Chinai il capo e le mie mani si diressero al libro. E la storia riprese il suo corso. Lo aprii e le pagine iniziarono a sfogliarsi da sole. Una brezza gelida le costringeva sotto la sua forza e io non opposi la minima resistenza. Lasciai che quel vento mi donasse il sapere. E al capitolo 5 trovai la mia risposta. Terre Nord: Barrington.
Non fui in grado di trattenere una risata che rotolò fuori dalle mie labbra ingannatrici, rumorosa, piena di soddisfazione e di bramosia. Le mie mani fremettero, innalzai le mie braccia al cielo. Ero come preda di un delirio. Immagini di morte iniziarono a scorrere nella mia mente e io chiusi gli occhi per goderle appieno. Alla mia risata si unì quella di Albeth e io non seppi perdonare quell’intrusione nel mio momento. Abbassai le braccia, smisi di sorridere, la guardai con un’espressione grave, mi girai e intrapresi in silenzio la via della porta. La mia mano sinistra lesta non obbediva agli ordini che la Ragione voleva dettarle e cedette sotto il peso dell’Istinto. Estrassi un coltello, silenziosa e impercettibile come un’ombra. E tutto si consumò in un solo istante. Mi bastò guardare la vecchia per brevissimo tempo per conficcarle uno dei miei coltelli proprio al centro del petto. Infallibile mira dettata da movimenti fluidi del corpo allenato. Ella non emise nemmeno un gemito. Il sangue sgorgò copioso e io alla Dea mi rivolsi *§* ecco il sangue della tua figlia prediletta, belva che con la sua morte ha fornito nutrimento alla mia anima assetata di vendetta *§*
Fuggii da quella cella, attenta come chi da morte si difende e silenziosa come chi morte va portando. Lasciai il Tempio e corsi al maniero pervasa da pura follia, quasi incredula del favore della Serpe. Ma non sapevo quale visione mi attendeva lì.
Spalancai la porta, urlando di essere tornata. Chiamai il Maestro più volte ma solo il silenzio mi rispose. Corsi fuori e vidi Jorgen, il braccio destro del mio Signore. La sua aria non mi piacque. Gli chiesi più volte dove fosse il Maestro, dove fossero tutti gli altri. Cosa fosse successo. Ma il bastardo non rispondeva. Lo picchiai. I miei pugni si abbatterono sulle sue spalle e lui, in risposta, mi strinse a sé. Piansi senza sapere il perché e quella fu la prima volta che avvertì la mia creatura sussultarmi in grembo. Continuai a ripetere convulsamente tra le lacrime dove fosse il mio uomo e Jorgen mi prese tra le sue braccia e mi condusse nel retro del maniero, nella stalla. Lì trovai tutti gli altri, a cerchio, attorno alla figura possente ma abbattuta del mio uomo. Le lacrime continuarono a scendere copiose, accompagnate da singhiozzi che non sapevo e non volevo trattenere. Urlai, chiesi cosa fosse successo ma tutti erano votati a un religioso silenzio. Lui ansimava, stava consumando nell’agonia i suoi ultimi attimi di vita. Lo carezzai, lo baciai, portai le sue mani sul mio ventre, gli dissi di resistere. Mi sorrise e si biascicò le sue ultime parole ** abbi cura di te e di lui, bambina mia. Ti ho amato con tutto me stesso, mi sono macchiato della colpa di amare una bambina vedendo in lei una donna. Perdonami per questo e placa la tua sete di vendetta. Per te, per me, per lui…** Il resto fu silenzio prima che un mio urlo lo squarciasse. Un urlo che prendeva le sembianze del suo nome. Quello che mai avevo osato pronunciare prima d’allora. Phebo.


oO° La Luna della Neve °Oo


La natura si ferma, siamo nel cuore dell’inverno e anche noi dobbiamo fermarci e dedicarci al riposo dell’anima e al recupero delle forze.

Tutto si fermò. Nulla sembrò più seguire il suo naturale corso. E nonostante la morte faccia parte della vita di un uomo, io non accettavo il fatto che si fosse preso il mio. Trascorsi giorni in totale solitudine, con i ricordi che non mi concedevano pace, con la sua voce che mi ossessionava. Mi negai il contatto con gli altri uomini. Il maniero era in lutto, nessuno pensava all’azione. Gli uomini che formavano la mia famiglia mi lasciavano il cibo dietro la porta. A nessuno era concesso entrare nella mia stanza. A nessuno era concesso vedermi nel mio dolore più acuto. Dopo aver reso le onoranze funebri al mio Maestro mi relegai nella mia malinconia e vi rimasi per una settimana.
Fu solo dopo quel periodo di totale apatia che mostrai di nuovo il mio viso a quegli uomini che con me condividevano il dolore. Chiamai Jorgen, lo condussi nella mia stanza e, seduta con le mani giunte in grembo, con un’espressione impassibile e fredda di chi ormai non ha più nulla da perdere, chiesi lui di raccontarmi cosa fosse successo.
°° Ero io con lui di pattuglia al vicino bosco, in attesa che tu ti facessi viva. Non siamo mancati un solo giorno da quando abbiamo ricevuto la tua lettera. Lui ha capito subito che era una finzione. Del resto, è lui che ti ha introdotto a quell’arte e… °°
*§* Non è necessario che tu mi ricorda certe cose, Jorgen. Va’ avanti. *§*
Chinò il capo e continuò il suo racconto
°° eravamo di guardia e ti abbiamo visto arrivare. Lui voleva avvicinarti ma io l’ho fermato. Siamo rimasti ad osservarti per tutto il giorno, nella tua meditazione, nella tua comunione con la natura. Lui sapeva che te l’avevano richiesto. Sapeva che faceva parte del rito. E poi scese la sera. Tu ti alzasti per fare ritorno al Tempio e noi…ecco noi… °°
Quasi non riusciva ad andare avanti, povero uomo. Le lacrime gli colmarono gli occhi chiari senza chiedere il permesso, senza che la virilità insita in lui reclamasse per quella debolezza manifestata palesemente davanti agli occhi di una bambina. Non mi concessi allo sconforto e con voce fredda lo intimai di continuare.
°° ci siamo voltati e stavamo per percorrere la via verso caso. Fu un istante. lo vidi cadere per terra, colpito al braccio da una freccia. Lo aiutai ad alzarsi ma camminava a stento. Eravamo stati colti di sorpresa. Non c’eravamo accorti che qualcuno ti aveva accompagnato. E probabilmente nemmeno tu sai che Albeth era lì con te. La guardai in faccia, quella vecchia. Risi dicendo che la sua mira avrebbe potuto fare di meglio ma lei si limito a rispondere che la mira poteva essere aiutata da…altro. Stavo per colpirla ma scomparve, quasi fosse stata solo un sogno. Non la vidi più. Caricai Phebo…°°
*§* Non osare pronunciare il suo nome, Jorgen. Non osare… *§*
°° Certo, Ithilbor. Perdonami. Dicevo…caricai il Maestro sulle spalle e lo portai al maniero. Chiamammo subito una guaritrice che ci informò di ciò che scorreva nel suo corpo. La sua ferita non era mortale, di certo. Ma il veleno con cui la punta della freccia era intrisa, quello, lo era. Il resto lo sai… °°
Rimasi in silenzio per qualche minuto, fissando su quell’uomo il mio sguardo gelido che sembrava non lasciare spazio più al dolore. Sembrava averlo consumato tutto. Gli feci un gesto con la mano, per chiedergli di andarsene. E non appena la mia stanza fu di nuovo mia, urlai e piansi tutta la mia disperazione.
Il mio Maestro era morto a causa mia. Per mano della vecchia a cui avevo sottratto la vita. La Serpe si era presa la sua vita. Non l’avevo ingannata. Mi aveva permesso di versare il sangue di Albeth solo per pareggiare i conti. Rimasi dentro la mia stanza un’altra settimana, sfogando il mio dolore, il mio profondo senso di solitudine e abbandono. Nemmeno quei sussulti nel mio grembo riuscivano a donarmi una sorta di consolazione.
Mi astenni dal lavoro mentre gli altri continuarono la propria vita e provvedevano anche al mio sostentamento. Misi i vestiti dei miei travestimenti in un grosso baule, a prendersi la polvere che il tempo avrebbe loro donato. Le mature riflessioni sul senso di questa vita, sulla morte, sulla vanità delle cose, sfiorarono il mio essere. Che senso aveva adesso la mia vendetta? Che importanza poteva assumere nel cuore di una bambina che ha perso ciò che di più caro aveva al mondo? Quella sete di sangue parve assopirsi. Barrington continuò a popolare i miei sogni ma al risveglio era solo un senso di vuoto profondo quello che provavo. Tutto ciò durò per qualche tempo. Non so dire se una o due lune. Non la guardavo nemmeno più la Luna. Vedevo il giorno cedere il passo alla notte e percepivo quello come un ciclo continuo di cui io non ero più protagonista. Durò giusto il tempo di metabolizzare la tristezza per la perdita di quell’uomo che mi amò incondizionatamente di quell’amore puro che mai nessuno avrebbe saputo darmi. Nemmeno Niördhr o Skadi. E allora inevitabile fu la scelta che mi covavo nell’animo e che trovò la sua attuazione un giorno alla fine del tramonto.
Uscii dalla mia stanza, sotto lo sguardo attonito di Jorgen e gli altri. Ero pallida e sciupata. Il mio ventre più rotondo. Mi trascinavo a fatica. Mi chiesero se volevo mangiare ma risposi che piuttosto volevo solo cavalcare. Nessuno si oppose a quella richiesta e così mi diressi alla stalla dove per l’ultima volta il mio uomo mi aveva parlato. Solo una leggera veste bianca mi copriva. Il mio passo era rimasto felpato e silenzioso, sinuoso e leggero come quello di uno spettro. Entrai. Mi guardai indietro. Nessuno. Ero sola. Come era giusto che fosse. Presi tra le mani la raspa. Respirai. A fondo. Una e più volte. Socchiudendo gli occhi. Riaprendoli. E chiudendoli di nuovo. E quando decisi che ero pronta…iniziai a colpirmi il ventre, con tutta la forza che in corpo mi era rimasta, a cui si aggiungeva quella presa in prestito dalla disperazione. E continuai a colpire fino a che sangue di un rosso vivo non violò la mia veste bianca. E allora caddi a terra e urlai con tutto il fiato che ancora mi rimaneva in corpo. E versai tutte le lacrime che in vita mia non verserò mai più. Avevo ceduto il mio bambino alla notte. Alla Luna.
All’udir le mie urla Jorgen e gli altri giunsero di corsa. Quando ormai era troppo tardi. Jorgen mi prese tra le sue braccia. Prese tra le braccia quella bambina che era cresciuta troppo in fretta e che aveva visto troppo presto tutto il dolore e la disperazione del mondo. Mi condusse nella mia stanza e mandò gli altri a chiamare la guaritrice. Quando giunse non ero ancora in sensi. Mi diede un intruglio per lasciarmi dormire il più a lungo possibile e compì le operazioni di rito per liberarmi da ciò che dentro di me ormai non godeva più di vita. Rimasi una luna distesa su quel letto, con Jorgen che si prese cura di me quasi fosse un padre. Quel padre che non avevo mai avuto. Non osò mai chiedermi il perché di quel folle gesto preoccupandosi solo del mio totale recupero.


oO° La Luna Fredda °Oo


È il momento della rinascita, del risveglio. Le nostre energie sono volte al Dio che deve risvegliarsi. Rappresenta la vita, la morte e la rinascita ed invita alla riflessione sul ciclo della vita.

Quando mi ripresi del tutto, tornai ad allenarmi. Non c’era spazio nella mia anima per il rimorso. Quella creatura avrebbe rappresentato solo un ostacolo a ciò che dovevo compiere. Era stato solo un IMPREVISTO. E poi non avrei cresciuto il mio bambino senza suo padre. Senza quel padre che era morto a causa mia e della mia stramaledetta vendetta. Non potevo non onorare la sua morte. Non potevo concedere che fosse morto invano.
Io ero morta con lui. Quel giorno la bambina si era adagiata accanto al suo Maestro e con lui sarebbe rimasta per l’eternità. Assieme al loro bambino mai nato.
Presi tutto ciò che ero in grado di portare con me e partii una sera.
Barrington era la mia destinazione. Il mio obiettivo: la Luna Blu della mia vita…


KARMA ATTUALE 54251 (16/03/2016)
[Modificato da Nianna 30/05/2016 08:39]
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Post: 26
Sesso: Femminile
22/03/2016 13:28


Il PG Ithilbor giace in torpore nella sua camera da letto alla Torre Oscura.

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Nianna
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